Il verde e l’architettura a sostegno dei malati di Alzheimer
La demenza senile di tipo Alzheimer, è una forma degenerativa primaria invalidante, che esordisce prevalentemente oltre i 65 anni. La limitata e comunque non risolutiva efficacia delle terapie, oggi disponibili, e le enormi risorse necessarie per la sua gestione, sociale e umana, ricadono in gran parte sui familiari dei malati e la rendono una delle malattie a più grave impatto sociale.
E’ facile confondere i primi sintomi, che sono spesso erroneamente considerati problematiche legate all’età e allo stress. La memoria che va sparendo, è il sintomo più comune: incapacità di acquisire nuovi ricordi di eventi osservati di recente. L’avanzata della malattia può mettere in evidenza confusione mentale, aggressività, difficoltà serie di linguaggio e di deambulazione.
La causa e la progressione della malattia non sono ancora chiari alla scienza e la ricerca ne attribuisce la colpa alla disfunzione di una proteina, l’amiloide, che va ad ammassarsi nel cervello. I trattamenti terapeutici utilizzati sino ad oggi, offrono piccoli benefici sintomatici e non su tutti i malati. Il risultato parziale è di rallentare il decorso della patologia. Pur davanti ad oltre 500 studi clinici, ricerca massiccia dei paesi più evoluti, un possibile trattamento che ne arresti o inverta il decorso, ancora oggi non esiste.
E’ quasi sempre il coniuge o un parente stretto a prendersi carico del malato.
Come aiutarsi in questi casi?
Alle sfortunate famiglie non viene offerto alcun appoggio, né viene loro insegnato un “modus operandi” prevalentemente comportamentale, di supporto psichico e sociale. Il rinforzo anche solo umano, al trattamento farmacologico, è lasciato all’iniziativa e alla buona volontà dei singoli .
La stimolazione cognitiva del malato, lo affermo come parere personale, si ottiene essenzialmente prodigandosi verso di lui con tanto amore e pazienza; è necessario entrare nel cuore del malato, con la vocazione intima di volerlo aiutare. Senza scoraggiarsi di fronte ad un quadro umano dissimile da quello che poteva apparire anni prima. La persona che curi è “diversa”, cambiata. Non c’è più lo stesso uomo, si è persa la possibilità di interagire. Ogni tanto si incrocia uno sguardo, si intravvede un “flash”: disperazione? Lucidità? Lo scopo è quello di migliorare il trend della vita quotidiana. Compito gravoso, forse terribile, focalizzato alla salvaguardia dell’identità personale. Il malato deve essere assoggettato, nel limite del possibile, ad una vita normale: tenerezza, rispetto, voce dolce e persuasiva, mantenendo l’osservanza delle vecchie abitudini. Ad esempio, un paziente che ha sempre amato la musica, questa inesauribile risorsa cerebrale, che non si esaurisce con la malattia, deve continuare a poterla ascoltare in quanto “risorsa” del proprio vivere. La scienza sostiene che la musica sia un’autentica stimolazione del cervello, facilitando lo sviluppo di strategie di compensazione che poggiano su canali di comunicazione non verbali. La persona affetta da Alzheimer, va metaforicamente abbracciata in tutte le manifestazioni quotidiane, proteggendola con piccole azioni, che solo l’amore sa fare. Ciò contribuisce a rallentare il declino cognitivo, produce il miglioramento dell’umore e dell’autostima.
Difficile descrivere l’isolamento che l’attuale società riserva al parente (moglie, marito, figlio) che si dedica all’assistenza del malato/a, che non lo abbandona in un qualsivoglia struttura/lager sanitaria. Non esiste neppure una chiara informazione e formazione, per coloro che si prendono cura del malato, salvo le eccezioni “onerose”, che confermano le regole. Poca alleanza di lavoro con i medici, che non prestano ne indicano, la possibilità di partecipare a forme di supporto psicologico diretto.
Del resto la cura dell’Alzheimer è ai suoi primi passi: nel 2013 si può solo tentare di migliorare la qualità della vita. La ricerca è attiva ovunque: oriente e occidente stanziano somme importanti per arrivare a comprenderne le ragioni scatenanti dagli effetti devastanti. Ad esempio, alcuni studi hanno scoperto in che misura un giardino può aiutare questi sfortunati. In America, come Svezia, Italia ma anche in tanti altri paesi, hanno approntato studi approfonditi dai quali è emerso come il “verde”, progettato appositamente a scopo curativo, sia un vero toccasana per il malato di una forma demenziale o tumorale. Noi italiani ne abbiamo preso atto di recente. E’ sufficiente dare uno sguardo attento ad alcuni nosocomi: ospedale “Meyer” di Firenze, il giardino del Centro Ospedaliero di Villa Ragionieri a Sesto Fiorentino, le nuove terrazze del reparto di oncologia Falck all’Ospedale di Niguarda Ca’ Grande, per renderci conto che è stato scoperto qualcosa che è di grande utilità per i pazienti. Giulio Senes, ricercatore alla facoltà di Agraria presso l’Università degli Studi di Milano, sostiene, senza tema di smentite, che la progettazione del verde nelle strutture di cura, ottiene risultati eccezionali. L’approccio alla terapia per questi malati, si muove in modo nuovo. Ne fanno testo i numerosi convegni, pubblicazioni e blog: tutti propendono ad un’attenzione per la cultura del “verde”. Ne hanno già fatto tesoro, a Milano, l’Istituto dei Tumori e il Neurologico Besta. Il giardino risulta al “centro” del processo di cura. Il noto architetto, Renzo Piano, sta progettando la “fabbrica della salute”, che sorgerà nella’area ex Falck di Sesto S. Giovanni, vicino a Milano, pronto per il 2016. Laboratori, sale operatorie e quant’altro, saranno interrati; le stanze avranno tutte finestre che daranno su un grande parco, con alberi di alto fusto, tanta vegetazione e fiori, soprattutto gialli e azzurri, ma anche orti, che oggi ci dicono essere parte integrante del processo di cura. La sicurezza di quanto bene sviluppi il “verde” sulla fragilità dell’uomo nel momento della malattia, lo si deve agli studi e alle ricerche del dott. Roger Ulrich, fondatore del primo centro interdisciplinare tra medicina e architettura, all’Università del Texas. Attualmente agisce in Svezia, nazione all’avanguardia nel settore. Questo attento ricercatore/scienziato, afferma come sia sufficiente l’accesso al verde, anche solo visivo, per avere dei benefici. E’ convinto che il giardino possa trasformarsi in un serio strumento terapeutico, in grado di curare patologie gravi come le demenze, l’autismo e vari tipi di disabilità. Questa linea di pensiero è molto seguita. L’Arch. Monica Botta, specializzata in progetti verdi per utenze “fragili” , ha completato un progetto, ultima sua creazione, di un giardino bellissimo al Centro Diurno per malati di Alzheimer a Chiavenna (Sondrio). Ci dicono che le persone affette da tali patologie, abbiano la percezione spazio-temporale compromessa e per questa ragione si costruiscono spazi ad hoc, ampi, ariosi e senza percorsi ciechi, per stimolare nel malato percezioni positive.
Ogni modesto passo avanti, seppur piccolo, è un successo. Ogni energia fisica ed affettiva, volta a migliorare lo status quo del malato dona la soddisfazione (o l’illusione?) di avercela fatta!
E ritorna il sereno…
E’ facile confondere i primi sintomi, che sono spesso erroneamente considerati problematiche legate all’età e allo stress. La memoria che va sparendo, è il sintomo più comune: incapacità di acquisire nuovi ricordi di eventi osservati di recente. L’avanzata della malattia può mettere in evidenza confusione mentale, aggressività, difficoltà serie di linguaggio e di deambulazione.
La causa e la progressione della malattia non sono ancora chiari alla scienza e la ricerca ne attribuisce la colpa alla disfunzione di una proteina, l’amiloide, che va ad ammassarsi nel cervello. I trattamenti terapeutici utilizzati sino ad oggi, offrono piccoli benefici sintomatici e non su tutti i malati. Il risultato parziale è di rallentare il decorso della patologia. Pur davanti ad oltre 500 studi clinici, ricerca massiccia dei paesi più evoluti, un possibile trattamento che ne arresti o inverta il decorso, ancora oggi non esiste.
E’ quasi sempre il coniuge o un parente stretto a prendersi carico del malato.
Come aiutarsi in questi casi?
Alle sfortunate famiglie non viene offerto alcun appoggio, né viene loro insegnato un “modus operandi” prevalentemente comportamentale, di supporto psichico e sociale. Il rinforzo anche solo umano, al trattamento farmacologico, è lasciato all’iniziativa e alla buona volontà dei singoli .
La stimolazione cognitiva del malato, lo affermo come parere personale, si ottiene essenzialmente prodigandosi verso di lui con tanto amore e pazienza; è necessario entrare nel cuore del malato, con la vocazione intima di volerlo aiutare. Senza scoraggiarsi di fronte ad un quadro umano dissimile da quello che poteva apparire anni prima. La persona che curi è “diversa”, cambiata. Non c’è più lo stesso uomo, si è persa la possibilità di interagire. Ogni tanto si incrocia uno sguardo, si intravvede un “flash”: disperazione? Lucidità? Lo scopo è quello di migliorare il trend della vita quotidiana. Compito gravoso, forse terribile, focalizzato alla salvaguardia dell’identità personale. Il malato deve essere assoggettato, nel limite del possibile, ad una vita normale: tenerezza, rispetto, voce dolce e persuasiva, mantenendo l’osservanza delle vecchie abitudini. Ad esempio, un paziente che ha sempre amato la musica, questa inesauribile risorsa cerebrale, che non si esaurisce con la malattia, deve continuare a poterla ascoltare in quanto “risorsa” del proprio vivere. La scienza sostiene che la musica sia un’autentica stimolazione del cervello, facilitando lo sviluppo di strategie di compensazione che poggiano su canali di comunicazione non verbali. La persona affetta da Alzheimer, va metaforicamente abbracciata in tutte le manifestazioni quotidiane, proteggendola con piccole azioni, che solo l’amore sa fare. Ciò contribuisce a rallentare il declino cognitivo, produce il miglioramento dell’umore e dell’autostima.
Difficile descrivere l’isolamento che l’attuale società riserva al parente (moglie, marito, figlio) che si dedica all’assistenza del malato/a, che non lo abbandona in un qualsivoglia struttura/lager sanitaria. Non esiste neppure una chiara informazione e formazione, per coloro che si prendono cura del malato, salvo le eccezioni “onerose”, che confermano le regole. Poca alleanza di lavoro con i medici, che non prestano ne indicano, la possibilità di partecipare a forme di supporto psicologico diretto.
Del resto la cura dell’Alzheimer è ai suoi primi passi: nel 2013 si può solo tentare di migliorare la qualità della vita. La ricerca è attiva ovunque: oriente e occidente stanziano somme importanti per arrivare a comprenderne le ragioni scatenanti dagli effetti devastanti. Ad esempio, alcuni studi hanno scoperto in che misura un giardino può aiutare questi sfortunati. In America, come Svezia, Italia ma anche in tanti altri paesi, hanno approntato studi approfonditi dai quali è emerso come il “verde”, progettato appositamente a scopo curativo, sia un vero toccasana per il malato di una forma demenziale o tumorale. Noi italiani ne abbiamo preso atto di recente. E’ sufficiente dare uno sguardo attento ad alcuni nosocomi: ospedale “Meyer” di Firenze, il giardino del Centro Ospedaliero di Villa Ragionieri a Sesto Fiorentino, le nuove terrazze del reparto di oncologia Falck all’Ospedale di Niguarda Ca’ Grande, per renderci conto che è stato scoperto qualcosa che è di grande utilità per i pazienti. Giulio Senes, ricercatore alla facoltà di Agraria presso l’Università degli Studi di Milano, sostiene, senza tema di smentite, che la progettazione del verde nelle strutture di cura, ottiene risultati eccezionali. L’approccio alla terapia per questi malati, si muove in modo nuovo. Ne fanno testo i numerosi convegni, pubblicazioni e blog: tutti propendono ad un’attenzione per la cultura del “verde”. Ne hanno già fatto tesoro, a Milano, l’Istituto dei Tumori e il Neurologico Besta. Il giardino risulta al “centro” del processo di cura. Il noto architetto, Renzo Piano, sta progettando la “fabbrica della salute”, che sorgerà nella’area ex Falck di Sesto S. Giovanni, vicino a Milano, pronto per il 2016. Laboratori, sale operatorie e quant’altro, saranno interrati; le stanze avranno tutte finestre che daranno su un grande parco, con alberi di alto fusto, tanta vegetazione e fiori, soprattutto gialli e azzurri, ma anche orti, che oggi ci dicono essere parte integrante del processo di cura. La sicurezza di quanto bene sviluppi il “verde” sulla fragilità dell’uomo nel momento della malattia, lo si deve agli studi e alle ricerche del dott. Roger Ulrich, fondatore del primo centro interdisciplinare tra medicina e architettura, all’Università del Texas. Attualmente agisce in Svezia, nazione all’avanguardia nel settore. Questo attento ricercatore/scienziato, afferma come sia sufficiente l’accesso al verde, anche solo visivo, per avere dei benefici. E’ convinto che il giardino possa trasformarsi in un serio strumento terapeutico, in grado di curare patologie gravi come le demenze, l’autismo e vari tipi di disabilità. Questa linea di pensiero è molto seguita. L’Arch. Monica Botta, specializzata in progetti verdi per utenze “fragili” , ha completato un progetto, ultima sua creazione, di un giardino bellissimo al Centro Diurno per malati di Alzheimer a Chiavenna (Sondrio). Ci dicono che le persone affette da tali patologie, abbiano la percezione spazio-temporale compromessa e per questa ragione si costruiscono spazi ad hoc, ampi, ariosi e senza percorsi ciechi, per stimolare nel malato percezioni positive.
Ogni modesto passo avanti, seppur piccolo, è un successo. Ogni energia fisica ed affettiva, volta a migliorare lo status quo del malato dona la soddisfazione (o l’illusione?) di avercela fatta!
E ritorna il sereno…
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