Concussion o commozione cerebrale
Si verifica ogni volta che il cervello subisce una lesione per un forte colpo o per una scossa alla testa, e ciò può accadere anche senza che il cranio si fratturi: è l’ennesimo rischio emergente all’interno del panorama giuridico mondiale, che costituisce una grave minaccia per molte associazioni sportive (ma non solo)
19/07/2024
La parola concussion, definita anche “concussione cerebrale” (dal latino concussus, “scosso violentemente”), indica in particolare la commozione cerebrale che interessa gli atleti soggetti a colpi alla testa. È questo l’ennesimo rischio emergente all’interno del panorama giuridico mondiale, che costituisce una grave minaccia per molte associazioni sportive, ma non solo. Si verifica ogni volta che il cervello subisce una lesione per un forte colpo o per una scossa alla testa, e ciò può accadere anche senza che il cranio si fratturi.
Poiché il cervello ha una consistenza gelatinosa ed è circondato dalla struttura rigida della scatola cranica, queste lesioni traumatiche possono causare sanguinamenti, danni neurali e tumefazioni e, anche se l’uso del casco può assorbire parte dell’impatto e impedire la frattura del cranio, la maggior parte della forza impressa dal colpo viene ancora trasmessa al cervello, che si scuote all’interno del cranio stesso.
Studi effettuati dai ricercatori hanno dimostrato che traumi ripetuti di questo tipo aumentano significativamente i rischi di disfunzione neurologica permanente, e hanno collegato gli incidenti multipli subiti da molti atleti all’insorgere dell’encefalopatia traumatica cronica (o Cte: chronic traumatic encephalopathy), una malattia che comporta gravi sintomi, tra cui perdita di memoria, difficoltà di parola, terribili emicranie, offuscamento della vista, depressione e financo demenza.
A causa di questa patologia si è verificato un certo numero di suicidi. Uno dei casi più famosi è stato quello di Dave Duerson, famoso campione della squadra di football americano dei Chicago Bears, che si tolse la vita nel febbraio del 2011, incapace di resistere a una malattia così dolorosa e invalidante. Tra le ultime sue volontà, il campione spiegava di essersi suicidato con un colpo di pistola in pieno petto, con l’intento di lasciare intatto il suo cervello, perché fosse consegnato ai ricercatori e fosse provato il nesso eziologico della sua patologia con l’attività sportiva svolta.
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COM’È NATO E SI È SVILUPPATO IL FENOMENO
Come spesso accade nelle questioni che interessano la responsabilità civile, il fenomeno si è sviluppato negli Stati Uniti ed è poi giunto fino a noi. Che il trauma cranico sia potenzialmente un problema per chi pratica molte discipline sportive è risaputo dai tempi di Ippocrate, che nell’antica Grecia menzionava nelle sue opere la commotio cerebri, scrivendo come una scossa o un colpo violento alla testa potessero causare la perdita di eloquio, udito e vista.
Ma le conseguenze di questo tipo di infortunio sono balzate agli onori della cronaca da quando la National Football League (Nfl), la maggiore lega professionistica di football americano, ha dovuto affrontare una class action da oltre 700 milioni di dollari, intentata da migliaia di ex giocatori, per traumi cerebrali causati dai ripetuti colpi alla testa subiti durante il gioco. Nel 2015, l’argomento fu il soggetto di un film famoso, intitolato Zona d’ombra (distribuito anche coi titoli Zona d’ombra - Game Brain e Zona d’ombra - Una scomoda verità) con protagonista Will Smith. La pellicola raccontava la storia del dottor Bennet Omalu, il neuropatologo di origine nigeriana che scoprì la Cte indagando sulla morte di Mike Webster (un altro ex campione di football) e della sua battaglia affinché la Nfl, accusata di negligenza per la salute dei giocatori, prendesse atto del problema.
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DINAMICA DELLA COMMOZIONE CEREBRALE
Il cervello umano galleggia nel liquido cerebro-spinale all’interno del cranio e, quando la testa subisce un urto improvviso, esso schizza in avanti e indietro, subendo una sorta di accelerazione, allungandosi e contraendosi oppure torcendosi e ruotando, a seconda della direzione dell’impatto. Questa dinamica ha delle ripercussioni a livello cellulare: allungandosi, le fibre di alcune cellule possono danneggiarsi, e quando ciò accade c’è il rischio che dalla parte danneggiata fuoriesca la proteina tau. Tale proteina è presente nei neuroni del nostro cervello ed è fondamentale per un sano funzionamento del sistema nervoso. A lungo andare e dopo ripetuti traumi, però, le proteine tau fuoriuscite si accumulano e creano come dei grumi, che soffocano le cellule cerebrali, diminuendo la loro efficienza, prima di ucciderle del tutto. Tale fenomeno colpisce spesso le aree del cervello deputate alla cognizione, alle funzioni esecutive, ad alcuni aspetti della memoria e del ragionamento.
Molti animali sono provvisti di adeguate difese per questo tipo di danni. La testa di un picchio comune è predisposta per consentire all’uccello di picchiettare su un albero fino a 12mila volte al giorno. La sua lingua avvolge infatti cranio e cervello come una specie di cintura di sicurezza, per poi fuoriuscire dalla cavità orale. Lo stesso tipo di “aiuto naturale” interessa il montone o altri animali simili.
L’uomo, tuttavia, non possiede alcun elemento anatomico per proteggerlo dai forti impatti che possono coinvolgere la testa. Il dottor Omalu calcolò che Webster, nel corso della sua carriera, potrebbe aver subìto fino a 25mila collisioni violente. Per alcune di queste, a livello di forza sprigionata, era come se lo avessero colpito sul casco con un martello pneumatico.
l tessuto cerebrale distrutto, come sappiamo, non può essere ricostituito e c’è il rischio che il processo di degenerazione continui anche dopo che l’attività che causa i traumi sia cessata. Webster era finito sul tavolo dell’obitorio in cui lavorava Omalu a causa di un infarto: aveva 50 anni. Dopo il ritiro dal football, era stato affetto da scoppi d’ira incontrollata e si dimenticava perfino di mangiare. Soffriva di vuoti di memoria e aveva dolori lancinanti in tutto il corpo, che lo rendevano dipendente dai farmaci. Poco prima di morire si era comprato un taser, che usava sul ventre o sulle cosce: era diventato l’unico modo per riuscire a dormire.
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LE CLASS ACTION PER DANNI DA CONCUSSION
Trattandosi di un problema che investe il danno alla persona, la questione è estremamente rilevante, e sono ormai numerose le associazioni e leghe sportive coinvolte in altrettante dispute e azioni collettive di risarcimento, per sinistri che interessano un gran numero di discipline e soggetti imputati. Come accennato, tra il 2014 e il 2015 la Nfl aveva dovuto risarcire oltre 700 milioni di dollari per risolvere una delle azioni legali promosse contro di essa, ma il fenomeno aveva poi investito anche la National Hockey League (Nhl) e molte altre associazioni di discipline diverse furono successivamente coinvolte a vario titolo. Per tutte, l’accusa era di non aver agito tempestivamente per prevenire ed evitare questo tipo di traumi, e di aver artatamente nascosto ai giocatori i pericoli da essi derivanti per la loro salute.
Nel corso della coppa del mondo di calcio tenutasi in Brasile, sempre nel 2014, si verificarono incidenti piuttosto significativi che coinvolsero il giocatore tedesco Christoph Kramer (durante la finale), l’argentino Javier Mascherano (in semifinale) e l’uruguaiano Alvaro Pereira (nella partita contro l’Inghilterra). Kramer ammise poi di non sapere dove fosse o cosa stesse accadendo intorno a lui, dopo essere stato colpito alla testa al diciassettesimo minuto della finale contro l’Argentina. Eppure il medico della nazionale tedesca, considerato uno dei medici sportivi più esperti, lo aveva esaminato e gli aveva permesso di restare in campo, prima di mandarlo negli spogliatoi, ancora intontito, 15 minuti più tardi. L’allarme cominciò quindi a diffondersi anche in Europa: nel Regno Unito alcuni giocatori di calcio e le loro famiglie intentarono una class action ai danni della Fifa, accusandola di negligenza nella gestione degli infortuni causati da lesioni alla testa e chiedendo di cambiare le regole del gioco, per renderlo più sicuro. La Fifa negò ogni addebito, ma annunciò un progetto di ricerca sulla salute mentale degli atleti, sottolineando come non fossero mai venute alla luce evidenze particolari tra i giocatori di calcio. Tale affermazione sollevò le proteste di medici e ricercatori, che invocavano da molti anni che tali studi venissero effettuati. Emerse poi che, già a partire dagli anni ’70, si erano verificati 44 decessi tra i giocatori di calcio inglesi, collegati a traumi cerebrali, in seguito a gomitate, ginocchiate, testate o calci inferti dagli avversari.
Anche le Federazione Internazionale di Rugby (disciplina che, a differenza del Football Americano, si pratica senza casco) dichiarò a quel punto “tolleranza zero” per il gioco pericoloso, in particolar modo per quanto attiene alle lesioni alla testa. Le leghe di sport “pesanti” sul piano del contatto fisico, come il football americano, il calcio, il rugby ed il football australiano, si incontrarono quindi a New York, per trovare un terreno comune sul quale organizzarsi e difendersi da quella che ormai tutti indicavano come la crisi del fenomeno concussion.
Nel tempo, la Cte è stata diagnosticata a 345 ex giocatori della Nfl e ad altre tipologie di sportivi: pugili e fighter di Mma (le arti marziali miste) in cui si registrano ancora pochi casi, probabilmente perché si tratta di una disciplina ancora giovane e perchè, grazie ai guanti meno imbottiti dei guantoni da boxe, gli atleti vanno a tappeto abbastanza presto, evitando ulteriori colpi quando sono già storditi. Ma non mancano wrestlers, giocatori di hockey, di rugby e, appunto, di calcio. Parliamo insomma di tutti quegli sport che implicano ripetuti urti e infortuni alla testa.
In sette anni dalla conclusione dell’accordo conclusosi tra il 2014 e 2015, la Nfl ha risarcito quasi 1,2 miliardi di dollari a più di 1.600 ex giocatori e alle loro famiglie: molto più di quanto previsto dagli esperti, al tempo delle trattative.
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LE CONSEGUENZE PER I GIOVANI E IL FUTURO DI UNO SPORT ESTREMAMENTE POPOLARE
Diversi studi hanno dimostrato che quanto prima un atleta inizia a praticare uno sport da contatto, tanto più è a rischio di Cte. I bambini, ad esempio, hanno una testa piuttosto grande rispetto al collo che è ancora debole, e a ogni urto il cervello sobbalza e provoca l’allungamento delle fibre nervose. Il fenomeno, insomma, risulta ancora più acuto su una struttura fisica in via di sviluppo. Questo tira in ballo le scuole e le associazioni sportive giovanili di moltissimi sport. Pensiamo al calcio: in Europa e in Italia questo sport è straordinariamente popolare e non si contano le associazioni e squadre giovanili. Fino a qualche anno fa, si parlava a malapena di Cte nei calciatori. La demenza era considerata una disgrazia che capitava ad alcuni ex calciatori, quando diventavano vecchi. Ma l’ex attaccante dell’Inghilterra Jeff Astle è morto nel 2002, a 59 anni, e gli era stata diagnosticata la demenza a metà degli anni ’80. La famiglia di Astle ha donato il suo cervello per la ricerca e nel 2014 è saltato fuori che aveva la Cte.
È chiaro che parlare di giocatori professionisti è una cosa, ma se parliamo di ragazzini, la situazione cambia radicalmente. Di fronte alle ricerche che hanno rivelato un legame tra i colpi di testa e la comparsa, negli anni, di forme di demenza tra i calciatori, la Football Association starebbe quindi pensando a una soluzione radicale: vietare ai bambini questo tipo di gesto tecnico. Dunque, niente più colpi di testa, il che significa riscrivere le regole dello sport più popolare al mondo. In alcuni paesi i colpi di testa nelle squadre giovanili sono già stati limitati, e anche la Uefa lo consiglia. Negli Stati Uniti il divieto riguarda i bambini sotto ai dieci anni, e nel Regno Unito lo scorso anno è stato introdotto lo stesso divieto per le categorie under 12, in un progetto pilota che potrebbe varare una regola definitiva.
Dobbiamo sottolineare che non ci riferiamo ai traumi cerebrali gravi, che comportano perdita di conoscenza, emorragie, incapacità fisiche e cognitive, ma di traumatismi che non hanno effetti immediati e riconoscibili ma, se ripetuti nel tempo in un accumulo di migliaia di colpi, possono causare danni cerebrali permanenti. Insomma, parliamo di giocatori che colpiscono il pallone di testa, subiscono una lesione microscopica o un’emorragia piccolissima, che sul momento non scatena nessun sintomo, ma rischia di innescare processi neurodegenerativi. Nel mondo del calcio, il tema è divenuto attuale e se ne starebbe parlando nelle federazioni, per capire come intervenire sul piano della prevenzione.
A prescindere dal futuro del calcio, comunque, la possibilità che si apra anche fuori dagli Stati Uniti uno tsunami di richieste di risarcimento per le conseguenze della commozione cerebrale, da parte di milioni di ex praticanti di questo sport e di molte altre “attività da contatto”, sarebbe davvero considerabile come remota?
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