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Giustizia riparativa

Consiste in un tentativo di risoluzione del conflitto, complementare al processo penale vero e proprio, basato sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro ed effettuato con l’aiuto di un mediatore terzo rispetto ai soggetti coinvolti

Giustizia riparativa hp_vert_img
Il 30 giugno del 2023 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 150/2022, più noto come Riforma Cartabia, che ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina organica della giustizia riparativa. La norma, emessa in conformità alle indicazioni fornite dalla Commissione Europea sulla restorative justice (che noi traduciamo con l’espressione giustizia riparativa), fornisce nuovi e importanti strumenti ai difensori che operano nell’ambito della giustizia penale.
La giustizia riparativa consiste in un tentativo di risoluzione del conflitto, complementare al processo penale vero e proprio, basato sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro ed effettuato con l’aiuto di un mediatore, ovvero di una funzione terza e imparziale rispetto ai soggetti coinvolti. L’intento non è quello di punire l’autore del reato, quanto di cercare di sanare il suo legame con la vittima del reato stesso e con la società, quel legame che l’evento criminoso ha spezzato. Sul piano pratico, si tratta di instaurare un contatto diretto tra offeso e offensore. Il primo sarà così in grado di esprimere i propri sentimenti ed emozioni in relazione alla lesione subita; il secondo, invece, avrà la possibilità di responsabilizzarsi. 
Si tratta quindi di un nuovo modello di giustizia penale, integrativo e complementare rispetto a quello tradizionale, fondato sul dialogo quale mezzo di ricostruzione del rapporto tra autore e vittima del reato, attraverso la risoluzione mediata delle questioni derivanti dal reato medesimo. L’obiettivo è il raggiungimento di un accordo finalizzato alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco. 
Gustavo Zagrebelsky, giudice ed ex presidente della Corte Costituzionale, ha commentato a questo riguardo: “diciamo anche che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura?”.

Un breve excursus storico

L’intervento del legislatore raccoglie diverse sollecitazioni sovranazionali avanzate da tempo, anche se, in realtà, la giustizia riparativa avrebbe radici antichissime, perchè tutta la storia del diritto penale può considerarsi come un continuo tentativo di garantire la riparazione delle offese. La nascita della giustizia riparativa, intesa in senso moderno, si fa tuttavia risalire all’esperimento di Kitchener, una cittadina dell’Ontario, al confine tra il Canada e gli Stati Uniti, dove all’inizio degli anni ‘70 due educatori, Mark Yantzi e Dean Peachey, proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini, responsabili di aver danneggiato diverse abitazioni lungo la via centrale del paese, un programma di libertà vigilata diverso dal solito. Pensarono infatti di sostituire il consueto modulo a base di studio, attività ricreative e colloqui con gli psicologi, con un programma di incontri tra i due giovani e le famiglie colpite dai danni, unitamente a un impegno risarcitorio, da garantire attraverso il lavoro.
Questo metodo si diffuse rapidamente nell’area anglosassone con la sigla Vom (victim-offender mediation) e si propagò in Nordamerica, Australia e Nuova Zelanda. Negli anni ‘80 giunse in Europa, in particolare in Francia e Gran Bretagna.
Kitchener era una città a prevalenza confessionale mennonita, sicché le prime riflessioni sistematiche sulla giustizia riparativa furono considerate frutto dell’opera di alcuni movimenti protestanti americani, soprattutto mennoniti e quaccheri, trasmessi a militanti socialmente impegnati in aree svantaggiate e magistrati e professori universitari considerati di sinistra, alla ricerca di risposte penali più umane. Di origini mennonite è anche Howard Zehr, universalmente considerato l’ideologo della giustizia riparativa.
Tra la fine degli anni’80 e l’inizio degli anni ‘90 cominciò quindi a manifestarsi in Europa la necessità di riconoscere le esperienze di giustizia riparativa, attraverso testi di legge destinati principalmente alla giustizia penale minorile. Tra i vantaggi che deriverebbero dall’adozione di questo modello, infatti, non è certo da sottovalutare quello concernente la forte valenza rieducativa e responsabilizzante insita nell’approccio riparativo.
In Germania, fin dal 1990, fu introdotto il Täter-opfer-ausgleich (mediazione-autore-vittima) come condizione per una diversa interpretazione del procedimento penale. Nel 1991 la Norvegia varò una legge che introduceva servizi di mediazione e riconciliazione, come istituzioni permanenti nel procedimento penale. La Spagna, infine, adottò le sue prime disposizioni con la legge 1992 n. 4, riservata ai procedimenti davanti all’autorità giudiziaria minorile.
Tutto questo processo è stato consacrato con l’approvazione della Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 19/99, seguita, tra le altre, dalla direttiva Ue 29/2012 e dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa relativa alla giustizia riparativa in materia penale, n. 8/2018.
L’introduzione della giustizia riparativa nelle istituzioni penali ha lo scopo di consentire una migliore umanizzazione e individualizzazione della risposta punitiva, con tecniche che mirano a una maggiore rapidità del processo e, infine, a un risparmio dei costi complessivi. Si può accedere al programma riparativo per qualsiasi reato, a prescindere dalla gravità. La richiesta, inoltre, può essere presentata in ogni stato e grado del procedimento penale.

La giustizia riparativa introdotta dalla Riforma Cartabia in Italia

In Italia la giustizia riparativa non costituisce un metodo alternativo a quello della giustizia ordinaria, ma ha un ruolo più limitato, volto ad appianare il trattamento sanzionatorio spettante a colui che è stato giudicato colpevole e abbia parallelamente svolto un programma di riparazione con esito positivo. 
I motivi che portano il nostro ordinamento ad avere difficoltà nel riconoscere le forme di giustizia riparativa derivano dalla Costituzione che, all’articolo 112, sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. È il pubblico ministero a decidere se formulare l’archiviazione o esercitare l’azione penale, e ciò rende difficile considerare l’esito della mediazione come un meccanismo in grado di intervenire sull’azione penale stessa.
Come spesso accade, insomma, essendo la giustizia riparativa derivante da un ordinamento assai diverso, diventa difficile ridurla e adattarla all’interno del nostro. In effetti, pare che in Italia i casi di giustizia riparativa siano ancora isolati, e i pochi esistenti sono assai poco documentati. 
La normativa in materia di giustizia riparativa è contenuta negli articoli da 42 a 67 del d.lgs. 150/2022. L’articolo 42 definisce la giustizia riparativa come “ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”. 
Come si è accennato, l’obiettivo del programma è ottenere un esito riparativo, il quale può essere simbolico, e quindi consistente in dichiarazioni, scuse formali, impegni comportamentali (anche pubblici) e accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi. 
Ma può anche essere materiale, come il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori. 
Questo aspetto risulta di particolare interesse, perché, mentre la riparazione simbolica attribuisce valore alle persone e agisce sulla ricostituzione di una relazione interpersonale, quella pecuniaria attribuisce un valore all’offesa, ponendo anche una serie di questioni, come l’identificazione di un metro il più possibile univoco. La riparazione, infatti, si muove tra la dimensione giuridico-economica della materialità del danno e quella giuridico-morale relativa al male inferto. 
È nota la questione inerente al cosiddetto pretium doloris, un’istanza legata alla dignità della persona in cui è difficile compenetrare la dimensione materiale con quella morale, della quale si discute attivamente e da lungo tempo nell’ambito della giurisprudenza civile.
I programmi di giustizia riparativa si svolgono presso i Centri per la giustizia riparativa, ossia strutture istituite presso gli enti locali a cui competono le attività relative all’organizzazione, gestione, erogazione e svolgimento dei programmi. Presso ogni Corte d’appello è istituita la Conferenza locale per la giustizia riparativa, a cui partecipano il ministero della Giustizia, le Regioni, le Province, le Città metropolitane e le Province autonome sul territorio, i Comuni sedi di uffici giudiziari, etc.
Al termine del programma è trasmessa all’autorità giudiziaria una relazione redatta dal mediatore, contenente la descrizione delle attività svolte e dell’esito raggiunto. Qualora il programma sia stato svolto con esito positivo, il giudice potrà valutarlo come circostanza attenuante, al fine di concedere una sospensione condizionale della pena, o anche come remissione tacita della querela.

Il riconoscimento dei risarcimenti 

Ma perché ci occupiamo di una questione che attiene dichiaratamente al penale, in un ambito che riguarda le assicurazioni? La responsabilità penale, come sappiamo, non può essere oggetto di copertura assicurativa, ma vi sono delle importanti eccezioni.
Pensiamo alla responsabilità collegata alla committenza: l’articolo 2049 del Codice civile stabilisce che i “padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Il dolo di tutti questi soggetti (non il dolo diretto, sia bene inteso) è compreso nelle polizze che assicurano la responsabilità civile.
Anche la responsabilità che grava sui genitori per comportamenti illeciti dei figli è compresa nelle polizze del capofamiglia, ma la possibilità di coprire un illecito penale non si limita certo a questo.
La legge 231/2001, ad esempio, pone a carico dell’impresa la responsabilità amministrativa, in dipendenza di particolari reati commessi dai suoi amministratori, dirigenti, etc., qualora realizzati a vantaggio dell’impresa stessa. Questa fattispecie, come sappiamo, è coperta nell’ambito delle polizze D&O. 
E poi vi sono molte altre fattispecie di reati che possono interessare soggetti assai diversi. La responsabilità penale del medico è stata assai ridimensionata dalla legge Gelli, ma è sempre possibile che venga posta a carico del medico stesso, quando si possa provare che egli non abbia seguito le buone pratiche dettate per la sua specializzazione.
Quando parliamo della giustizia riparativa, nel momento in cui la riparazione può essere materiale e può dunque investire una qualsiasi forma di compensation, ovvero di risarcimento, ciò può comportare il coinvolgimento delle eventuali polizze di assicurazione che operano a protezione dei soggetti interessati, in quanto responsabili per il fatto altrui, anche se certamente non per quanto attiene al fatto proprio. 
È dunque possibile che gli assicuratori vengano coinvolti nel processo di riparazione ma, a questo punto, si aprono molti interrogativi, tenendo conto che gli stessi non hanno mai nascosto un certo imbarazzo a essere coinvolti, anche indirettamente, nell’ambito del penale. Basti pensare al loro atteggiamento di diniego quando viene riconosciuta una provvisionale, ovvero quella somma di denaro che il giudice del processo penale liquida a favore della parte danneggiata, come anticipo di quanto gli spetterà definitivamente, una volta che l’importo complessivo del risarcimento venga determinato in sede civile. 

Il ruolo dell’assicuratore nella diversa visione tra giustizia penale e civile

Secondo Zehr, la restorative justice si distingue criticamente dal modello moderno di pena, il quale tende a considerare il reato come violazione di una norma e la pena stessa come conseguenza giuridica che sanziona tale condotta. Al contrario, la restorative justice propone il concetto per cui l’evento criminoso rappresenta una violazione delle persone e delle relazioni interpersonali. Queste violazioni creano obblighi, e l’obbligo principale dovrebbe essere quello di rimediare ai torti commessi. Ciò, soprattutto, per la vittima del reato, destinata ad assumere un ruolo secondario nella tradizionale amministrazione della giustizia penale. 
Andrebbe inoltre valorizzata l’esigenza di un’autentica responsabilizzazione dell’offensore, perché prenda coscienza delle conseguenze che le sue azioni hanno sortito sulle vite degli altri, mostrandogli gli effetti del suo comportamento e chiamandolo, nei limiti del possibile, a porvi rimedio attivamente. Questo concetto, che appare molto educativo (soprattutto alla luce della giustizia penale minorile), non sembrerebbe porsi in una posizione del tutto antagonistica rispetto a quello del neminem ledere, su cui fonda l’intero meccanismo della responsabilità civile: qui non è il reo a costituire il focus, quanto chi il torto l’ha subito. Negli Usa, dove il concetto di giustizia riparativa è nato e si è diffuso, il dibattito è aperto da tempo e la principale questione riguarda i soggetti coinvolti e il loro ruolo nel processo riparativo. 
Accettare una richiesta di risarcimento assicurativo, in questi casi, comporta infatti che l’assicuratore si ponga come uno stakeholder all’interno del processo riparativo. E nel momento in cui lo stesso fosse coinvolto nel processo medesimo, come si porrebbe la questione dell’ammissione della colpa e della responsabilizzazione del reo?

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