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Covid-19, giustizia, responsabilità e assicurazioni: tutto quello che c’è da sapere

Pubblichiamo la seconda parte di un lungo e interessante approfondimento a cura degli avvocati Filippo Martini e Marco Rodolfi sugli effetti della pandemia da Sars-CoV-2 sul mondo giuridico, su quello legale-sanitario, su quello lavorativo e sui principali ambiti assicurativi. Un’occasione di formazione e di riflessione

Covid-19, giustizia, responsabilità e assicurazioni: tutto quello che c’è da sapere hp_vert_img
SECONDA PARTE  

La questione del contagio nelle Rsa
Cercando ora di avere una visione allargata, che vada oltre il tracciato della responsabilità comune da infezione nosocomiale, è indubbio come il tema della responsabilità delle Rsa sia molto delicato sotto tale profilo. Le Rsa sono già state oggetto di attacchi sia sul fronte interno sia sul fronte esterno.
Sul fronte interno, i lavoratori delle Rsa (dipendenti e/o collaboratori) hanno lamentato una carenza di sicurezza sul lavoro, con contagi da Covid-19 dei medesimi lavoratori, da qualificarsi come infortunio sul lavoro. Sul fronte esterno, si sono attivati i parenti dei pazienti, i quali asseriscono che il contagio da Covid-19 sarebbe avvenuto all’interno della struttura.
Le Rsa, in primo luogo, non possono essere equiparate a una struttura ospedaliera, ma più propriamente a strutture “socio-sanitarie”.
Nelle Linee guida del Ministero della Sanità sulle residenze sanitarie assistenziali del 31 maggio 1994, si legge: “la Rsa rappresenta la collocazione residenziale dell’anziano e del soggetto disabile non assistibili adeguatamente a domicilio”. In pratica, “la Rsa si colloca in una posizione particolare e sostanzialmente diversa sia dalle unità operative ospedaliere geriatriche, di riabilitazione e di lungodegenza, sia dalle attuali residenze extra-ospedaliere (case di riposo, case albergo, ecc.) che hanno per gran parte valenza sociale”.
La Rsa, in buona sostanza, “è il fulcro residenziale extra-ospedaliero dell’assistenza alla persona non autosufficiente”.

Chi popola le Rsa
Le residenze sanitarie assistenziali realizzano “un livello medio di assistenza sanitaria (medica, infermieristica e riabilitativa) integrato da un livello alto di assistenza tutelare e alberghiera. È rivolta ad anziani non autosufficienti e ad altri soggetti non autosufficienti, non assistibili a domicilio. La Rsa trova riferimento normativo nella legge 67/88 e nel Dpcm 22.12.89”. Per quanto attiene gli aspetti strutturali e organizzativi, l’unità di base è il modulo o nucleo, composto di 20-25 posti per gli anziani non autosufficienti e di 10-15 posti (secondo la gravità dei pazienti) per disabili fisici, psichici e sensoriali, utilizzando in maniera flessibile gli stessi spazi edilizi.
 
In base alle loro condizioni psico-fisiche, sono ospiti delle Rsa:
  • anziani non autosufficienti (in media 4 moduli da 20-25 soggetti, fino a un massimo di sei moduli). Nelle Rsa per anziani, di norma, un modulo di 10-15 posti va riservato alle demenze;
  • disabili fisici, psichici e sensoriali (in media due moduli, massimo tre, da 10-15 soggetti).

Sul piano delle tipologie edilizie, le residenze sanitarie assistenziali utilizzano come moduli base:
  • nuclei elementari singoli per anziani non autosufficienti da 20 a 25 posti, che possono beneficiare anche dei servizi sanitari e sociali posti all’esterno;
  • nuclei elementari singoli per disabili fisici, psichici e sensoriali da 10 a 15 posti, che possono beneficiare anche dei servizi sanitari e sociali posti all’esterno.

Tali nuclei, variamente aggregati e articolati tra loro, danno origine:
  • per soggetti anziani non autosufficienti, a sistemi di più nuclei che non vanno di norma oltre gli 80 posti residenziali e che possono arrivare (garantendo un’idonea separazione tra nuclei) fino a un massimo di 120 posti, in zone ad alta densità abitativa e urbana. Tali strutture sono dotate di propri servizi sanitari e sociali secondo la composizione degli ospiti e con le adeguate connessioni con i servizi sanitari e sociali esistenti sul territorio. In ogni struttura con nuclei in numero di quattro, o superiori a quattro, va garantita la presenza di un nucleo riservato alle demenze;
  • per disabili fisici, psichici e sensoriali, a sistemi di 2 o 3 nuclei, secondo la gravità della patologia e quindi da 20 a 45 posti residenziali.

L’organizzazione per nuclei “consente di accogliere anche nella stessa struttura residenziale gruppi di ospiti di differente composizione senza peraltro determinare interferenze, data la relativa autonomia dei servizi di nucleo, e salvaguardando tutti gli aspetti di riservatezza personale. Nel contempo, essa crea occasioni di socializzazione spontanea all’interno del nucleo, nelle relazioni tra nuclei e nei rapporti con i fruitori esterni del centro servizi a ciclo diurno, di cui la residenza deve essere possibilmente dotata. Oltre a garantire la migliore assistenza agli ospiti, anche sotto il profilo gestionale, l’organizzazione per nuclei modulari e dotati di servizi autonomi appare essere la più idonea per un razionale impiego del personale e per la utilizzazione delle risorse”.
Le Rsa, infine, devono disporre di “spazi per le attività di servizio di ciascun nucleo e per le attività sanitarie curative e riabilitative comuni (da collocare preferibilmente in un’area dei servizi socio-sanitari a ciclo diurno aperta anche alla fruizione della popolazione esterna) e di spazi per attività di tipo ricreativo e di relazione sociale che rivestono importanza fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio psichico ed emotivo dell’ospite”.

Le complessità di un’indagine 
Fatta questa doverosa premessa distintiva sul mondo Rsa, che, come si è visto, è totalmente differente dal mondo ospedaliero, e ha delle peculiarità proprie, a cominciare dalla vita sostanzialmente in comune delle persone ivi ospitate, è altrettanto vero che, in quanto “struttura socio-sanitaria”, la Rsa è soggetta alle disposizioni della legge Gelli-Bianco(n. 24/2017) e, in particolare, per quanto ci riguarda agli artt. 1 e 7 di tale normativa (sicurezza delle cure e natura della responsabilità dell’azienda sanitaria). 
Le Rsa, pertanto, pur svolgendo attività differenti da quelle svolte dalle strutture ospedaliere, sono a loro equiparate ai fini della sicurezza delle cure, prevenzione del rischio e responsabilità civile dalla legge Gelli-Bianco. 
In una possibile vicenda che veda coinvolta una Rsa in un contenzioso legato al supposto contagio per infezione da Covid-19 contratta da persone residenti/ospiti delle Rsa, si pone in generale sul piano civilistico una delicata indagine del piano probatorio, che diversamente incombe sulle parti processuali: sulla parte istante che lamenti l’avvenuto contagio in degenza, e sulla parte resistente che, invece, sarà chiamata a dimostrare l’inesistenza causale fra regole di contenimento infettivo e contagio del paziente.
L’origine dell’infezione da Covid-19 nei pazienti di una Rsa, a ben vedere, può essere stata provocata da tre fattori:
  • un parente e/o visitatore che ha portato l’infezione all’interno della struttura;
  • un operatore sanitario infetto che lavorando all’interno della struttura ha diffuso il virus;
  • un paziente proveniente da altra struttura affetto da Covid-19 che ha portato all’interno della struttura il virus.

Un’indagine giudiziale non potrà prescindere, a nostro giudizio, da alcuni fattori reali che incideranno anche sulla valutazione della condotta tanto degli operatori quanto dell’organizzazione delle aziende preposte al contenimento e alla lotta della pandemia. 
Il primo fattore è legato all’ampia (qualcuno l’ha definita “virale”) produzione normativa ai vari livelli legislativi e amministrativi: appare evidente che le strutture socio sanitare siano state esposte a un succedersi di provvedimenti normativi e disposizioni tutt’altro che coordinate fra loro e chiare.
Altro fattore da considerare è legato alla considerazione che ci si è trovati (impreparati) di fronte a una situazione di assoluta emergenza, non solo regionale o nazionale, ma mondiale, dal momento che l’Oms, dopo aver parlato di epidemia in data 30 gennaio 2020, ha dichiarato ufficialmente la pandemia il 13 marzo successivo, per un virus che ha fatto la sua comparsa nel mondo (anche scientifico) solamente nel gennaio del 2020. 
Ci si chiede, ora, se questa assenza di disposizioni e linee guida idonee a valutare la condotta dei vari soggetti operanti nella sanità possa essere tale da sollevare un profilo difensivo per la classe medica spesso trascurato: la disposizione di cui all’art. 2236 c.c. la quale, ricordiamo, prevede che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Rispetto per chi ha combattuto il virus
Ebbene, se una riflessione deve esserci concessa, dopo questa analisi della complessità clinica e normativa che ancora oggi si presenta nella realtà quotidiana, è che nella futura vicenda giudiziale che si aprirà per chi sarà attore, convenuto e mediatore (nel senso della funzione giurisdizionale) delle diverse istanze e proposizioni difensive processuali, deve essere a essere ben delineata e valorizzata la complessità del quadro storico, epidemiologico e normativo. 
Ciò non solo per rispetto dei canoni distributivi dell’onere probatorio che reggono il processo civile, ma anche, e soprattutto (ci sia concesso), per un doveroso rispetto verso chi in questi mesi si è trovato esposto a un’azione virale mai indagata in precedenza e del tutto esente da regolazioni guida.
Questo per non esporre ingiustamente coloro che, a vario titolo e livello, siano già stati provati dalla virulenza della realtà clinica, a coinvolgimenti giudiziari infondati o pretestuosi che non siano sostenuti da fondata istanza, magari per un approccio superficiale e non ben allineato ai canoni giuridici richiamati.

A causa o in presenza del Covid-19?
Non di poco conto è il tema dei possibili danni risarcibili a fronte della nuova realtà da “responsabilità da Covid-19”. Un tema che si è già posto è, innanzitutto, quello dell’indagine causale diretta delle possibili conseguenze virali, soprattutto rispetto a quei pazienti (presenti spesso nei reparti di degenza ovvero all’interno delle strutture di accoglienza Rsa) i quali presentavano (e presentano) diverse patologie pregresse, indipendenti dal Covid-19.
A tale proposito s’impongono due osservazioni. In primo luogo, dovrà essere fornita dagli istanti la prova che i loro congiunti siano davvero deceduti a causa del Covid-19 e non in presenza del Covid-19.
Una statistica (certamente oggi purtroppo da aggiornare, ma indice degli andamenti percentuali per di più in una fase assai aggressiva del virus) riferita ufficialmente dall’Iss al 16 aprile 2020 stabilisce che, su 1.738 pazienti deceduti “il numero medio di patologie osservate su questa popolazione è di 3,3”. Solo 62 pazienti dunque, alla metà di aprile, non presentavano patologie (cioè il 3,6%).
Va rammentato che, secondo giurisprudenza ormai pacifica, “se l’azione o l’omissione colpevole concorre con la causa naturale nella produzione dell’evento lesivo, sul piano della causalità materiale sarà del tutto indifferente la preesistenza, coesistenza o concorrenza della causa naturale stessa (in senso contrario, non condivisibilmente, Cass. 975/2009). Le conseguenze dannose della lesione, invece, valutate sul piano della causalità giuridica (criterio eziologico che indaga, appunto, sulla relazione tra la lesione e le sue conseguenze), andranno liquidate, nella loro effettiva e complessiva consistenza, attribuendo all’autore dell’illecito la (sola) percentuale di aggravamento della situazione preesistente (Cass. 15991/2011; Cass. 28986/2019; Cass. 15.01.2020 n. 514)”.
Non di minor conto, nei meccanismi di valutazione rispetto ai noti di liquidazione compensativa dei danni alla persona (oggi a livello nazionale tutti riferibili alle note tabelle milanesi), è la variabile legata all’età media (decisamente avanzata) delle persone statisticamente decedute che, pertanto, avevano aspettative di vita ridotte. 
Sempre sulla scorta dei dati ufficiali dell’Iss, “al 16 aprile sono 227, dei 19.996, i pazienti deceduti positivi all’infezione da Sars-CoV-2 di età inferiore ai 50 anni (1,1%)”. Invece, la maggioranza delle persone decedute aveva tra gli 80 e gli 89 anni (40,5%).

I profili di casualità giuridica
Infine, di difficile collocazione medico-legale e scientifica potrà essere anche l’inquadramento della natura dei danni residuali o permanenti a chi abbia contratto e subito gli effetti del Covid-19 (per ragioni causalmente imputabili a condotte colpose di terzi), rispetto agli effetti privativi delle funzionalità biologiche ed esistenziali. Si ritiene che i “guariti da Covid-19” residuino postumi permanenti di portata relativa riferibili per lo più a conclamate insufficienze respiratorie.  
Sia i profili di causalità giuridica e materiale, sia quelli legati alla portata dei danni subiti nella proiezione causale propria del danno risarcibile (quello certamente riferibile alla colpa dell’operatore, sanitario o meno, cui attribuire l’evento patogenetico del danno preteso) avranno, dunque, un riflesso essenziale nell’impatto macroeconomico che, alla fine dell’iter accertativo e valutativo di eventuali responsabilità e danni da Covid-19, graverà sul sistema sanitario in via diretta ovvero anche indiretta (in caso di copertura assicurativa valida per lo specifico rischio).
Proprio il mondo delle assicurazioni coinvolge una buona parte delle nostre riflessioni, essendo numerosi i profili di coinvolgimento contrattuale e disciplinare coinvolti nella materia, sia nel campo strettamente sanitario, sia in quello relativo ad altri rami in ogni caso coinvolti, a ragione o meno, dal fenomeno Covid-19. 
Vediamo quali aspetti assicurativi verranno (e in parte lo sono già) coinvolti dagli effetti, sino a pochi mesi fa imprevedibili, della pandemia che ha colpito, oltre che a livello mondiale, le strutture sociali e macroeconomiche del Paese. 

La natura del contagio
Un altro tema assai complesso che si sta affacciando alle cronache anche giudiziarie (stando ad alcuni lanci di agenzia e a comunicati di organismi rappresentativi della parte datoriale), è legato alla natura del contagio Covid-19 negli ambienti lavorativi, non solo sanitari. La questione è introdotta dalla portata (per certi aspetti dirompente) dell’art. 42 del decreto legge n.18 del 17 marzo 2020, il quale ha dettato una normativa d’ispirazione previdenziale che ha, di fatto, modificato il perimetro della definizione di “infortunio professionale”, stressando il concetto fino a includervi in modo traslatizio la malattia da contagio da Covid-19.
Anche i profili di accertamento causale tra esposizione (reale o supposta) e contagio appaiono assai dilatati, in un’ottica presuntiva e protettiva, verso il prestatore d’opera che, pur tuttavia, si smarcano dai principi civilistici della colpa e del nesso e, quindi, con potenziale effetto derogativo ai canoni del diritto.
Il comma della norma prevede: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (Sars-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni Inail, nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro, sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
La questione posta deve essere dunque considerata alla luce degli effetti della disposizione normativa (factum principis) contenuta nell’art. 42 comma II del decreto legge n. 18/2020 (convertito ormai nella legge n. 27 del 24 aprile 2020) il quale stabilisce, come abbiamo visto, che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (Sars-CoV-2), in occasione di lavoro” l’Inail “assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.
Tale disposizione s’inserisce in un contesto di decretazione emergenziale che pone altresì numerose deroghe alla stessa disciplina Inail, come, ad esempio, i termini di prescrizione e decadenza per il conseguimento delle prestazioni.
A causa dell’emergenza da Covid-19, dal 23 febbraio 2020 e sino al primo giugno 2020, sono sospesi:
  • il decorso dei termini di decadenza relativi alle richieste di prestazioni erogate dall’Inail;
  • i termini di decadenza e prescrizione delle prestazioni Inail;
  • i termini di revisione della rendita su domanda del titolare, nonché su disposizione dell’Inail, che scadano nel periodo indicato (art. 83 dpr n. 1124/65).
Detti termini riprendono a decorrere dalla fine del periodo di sospensione.

A chi si applicano le disposizioni Inail
Tra le norme di natura “eccezionale” è previsto dunque che nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, l’Inail eroghi le prestazioni previste per l’infortunio sul lavoro: in questi casi, la causa virulenta è equiparata a quella violenta.
La disposizione di cui al secondo comma dell’art. 42 “si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
Le prestazioni Inail dunque spettano ai lavoratori dipendenti, parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti, appartenenti all’area dirigenziale.
Inoltre, per le seguenti categorie di lavoratori, vige la presunzione semplice di origine professionale, considerata l’elevatissima probabilità che gli stessi, per la natura del loro lavoro, vengano a contatto con il coronavirus: operatori sanitari, lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi.
Infine, gli eventi lesivi derivanti da infezioni da coronavirus, in occasione di lavoro, non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico (artt. 19 e s. del decreto del 27 febbraio 2019).
Questo quadro normativo emergenziale ed eccezionale deve essere così interpretato, come noto, alla luce anche dei due documenti dell’Inail: la nota di chiarimento del 17 marzo 2020 e, soprattutto, la circolare n. 13 del 3 aprile 2020. 
Il quadro normativo così delineato va, dunque, a incidere sul corpo interpretativo e disciplinare regolato dal dpr n. 1124/65 e dal decreto legislativo n. 38/2000. 
In particolare si rammenta, per quanto qui consta, che lo stesso TU1124/65 definisce infortunio l’evento “avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro” e malattia professionale quella contratta “nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificate” in apposita tabella. Si sta ponendo dunque il tema di se e come questa disciplina previdenziale possa incidere sui profili ordinari della responsabilità e della causalità tra possibile omissione di presidi di sicurezza e danno-contagio al lavoratore. 

L’azione dell’Inail contro il datore di lavoro
Un tema già al centro di altissima attenzione, anche mediatica, è quello legato al possibile riflesso che tale normativa potrebbe avere sull’azione di regresso dell’Inail verso il datore di lavoro.
Per parte nostra pensiamo che appaia di difficile praticabilità l’azione di responsabilità dell’Inail contro il datore di lavoro, posto che il regresso nei confronti del datore di lavoro spetta quando l’infortunio sia dovuto a condotta astrattamente qualificabile come reato.
Ora, in teoria potrebbe anche ipotizzarsi che il datore di lavoro, colposamente trascurando di adottare il necessario distanziamento tra i suoi dipendenti oppure non dotandoli di dispositivi di protezione individuale, abbia concausato il diffondersi del contagio (nel senso di non averlo impedito, pur avendo l’obbligo di farlo). Ma il problema dell’accertamento d’un simile ipotetico reato sarebbe il nesso di causa. 
L’Inail avrebbe l’onere di provare in giudizio che il lavoratore indennizzato dall’istituto è stato contagiato a causa e in conseguenza della colposa omissione di strumenti di igiene e profilassi da parte del datore di lavoro. Prova alquanto ostica, dal momento che ben difficilmente potrà stabilirsi quando e per quale causa il lavoratore abbia contratto l’infezione (si veda M. Rossetti L’assicurazione e l’emergenza Covid, Assicurazioni, 29 aprile 2020).

L’azione del dipendente
Analoga difficoltà potrà incontrare il lavoratore stesso nell’agire contro il proprio datore, benché agevolato dal regime più favorevole proprio dell’art. 2087 c.c., stante l’oggettiva difficoltà di inquadrare comunque il momento del contagio e la relazione causale con le sue conseguenze. 
Certamente, ove dall’Inail stesso, ad esempio, venisse accertata una grave violazione del datore di lavoro dei protocolli di sicurezza (specie in questi giorni di riapertura regolata) e fossero riscontrati numerosi casi di contagio in azienda, la presunzione di accadimento causale potrebbe trovare verso il datore di lavoro maggiori margini di approdo verso una sua declaratoria di responsabilità.
In una nota uscita proprio di recente, l’Inail ha reso nota una posizione di apparente tutela della classe imprenditoriale, certamente indotto dall’allarme registrato presso la categoria (comunicato stampa del 15 maggio 2020) sostenendo che “è utile precisare che dal riconoscimento come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro”.
Difatti, come da noi appena osservato, “sono diversi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail per la tutela relativa agli infortuni sul lavoro e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro che non abbia rispettato le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Queste responsabilità devono essere rigorosamente accertate, attraverso la prova del dolo o della colpa del datore di lavoro, con criteri totalmente diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative Inail”.
Pertanto, il riconoscimento dell’infortunio da parte dell’istituto “non assume alcun rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza in tale ambito del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del pubblico ministero. E neanche in sede civile il riconoscimento della tutela infortunistica rileva ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo per aver causato l’evento dannoso”.
La conclusione appare persino eccessiva nello “sconfinamento interpretativo” di un profilo giuridico (i canoni della responsabilità civile del datore di lavoro) che non rientra certo nelle competenze dell’istituto: “al riguardo, si deve ritenere che la molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro, oggetto di continuo aggiornamento da parte delle autorità in relazione all’andamento epidemiologico, rendano peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro”. 
Benché su tali profili si dovrà attendere l’evoluzione e l’interpretazione giurisprudenziale, che dovrà conciliare diritto e realtà emergenziale, riteniamo che sussistano ampi margini di difesa nel merito, tanto verso le domande di regresso dell’istituto e anche, con maggior carico probatorio in giudizio, per le difese del datore di lavoro. 
Peraltro, la considerazione che proprio per superare aspetti probatori e causali di difficile acquisizione per il lavoratore si sia optato per la soluzione estensiva e presuntiva contenuta nell’art. 42 del decreto legge n. 18/2020, rende chiaro ancor di più che tale ispirazione protettiva trovi fonte nel quadro indennitario e previdenziale e non nel regime “responsabilistico” che, come rammentato nella nota Inail appena riferita, ha parametri allegatori e probatori severi.

L’impatto sulle coperture Rco e infortuni
Tralasciando l’ambito del possibile coinvolgimento della classe imprenditrice e dei datori di lavoro nella materia della responsabilità da contagio da Covid-19, si pone, come si è accennato in premessa, un tema serio legato alla praticabilità delle coperture assicurative coinvolte a diversa ragione nella materia. 
Si tratta, innanzitutto, di comprendere come inquadrare questa disciplina normativa eccezionale sul piano della sua idoneità a derogare il quadro generale distintivo tra infortunio e malattia, non solo nell’ambito previdenziale (come certamente avviene per effetto dell’art. 42 del decreto legge n. 18/2020 di cui si è parlato nel precedente capitolo), ma anche sul piano di eventuali profili di collimazione della definizione di “infortunio” nel contesto, per quanto qui consta, delle polizze obbligatorie a copertura del rischio professionale del datore di lavoro (Rco) e delle polizze private Infortuni. 
Come noto, la copertura del datore di lavoro viene data tanto nel contesto dell’azione di regresso dell’Inail, quanto a tutela delle richieste che il lavoratore e i suoi danti causa possono avanzare per il danno non altrimenti già indennizzato dall’ente assistenziale. 
Ci si chiede, insomma, se un domani l’Inail potrebbe agire contro il datore di lavoro per violazione dei protocolli di sicurezza da predisporre per contenere il contagio in ambienti professionali, e anche se il lavoratore stesso possa agire contro lo stesso datore per danno differenziale (danni che non rientrano nella disciplina dpr n. 1124/65 e decreto legislativo n. 38/2000), e che riflesso possano avere, in entrambe le situazioni, le coperture assicurative Rco che coprano tali rischi se limitate all’evento “infortunio” (con esclusione quindi delle malattie professionali). 
Le polizze con estensione alla sezione Rco, che per lo più prevedono la garanzia per entrambe le eventualità (regresso e azione del lavoratore), talvolta ampliano la copertura alle malattie professionali (riconosciute dall’Inail e/o dalla magistratura, e quindi anche in contesto extra tabellare), anche se con vincoli patrimoniali diversi. È frequente altresì trovare coperture assicurative limitate agli infortuni lavorativi. 
Le tesi che si oppongono in questo momento (e che, temiamo, costituiranno il campo di contrapposte visioni nella dialettica dell’inevitabile contenzioso interpretativo) si basano su argomentazioni valide o plausibili, che è opportuno analizzare in dettaglio.
Dato per acquisito il quadro normativo e le peculiarità della legislazione emergenziale che ha generato la possibile criticità normativa, secondo quanto ampiamente sopra illustrato, veniamo a esaminare in dettaglio gli argomenti in base ai quali si trovano a confronto oggi le tesi che sostengono l’efficacia traslatizia “da trascinamento” della disciplina della causa virulenta da Covid-19 nell’ambito privatistico degli infortuni professionali (escluse le malattie) e, per essa il possibile piano di operatività della garanzia a favore dell’assicurato datore di lavoro, sia ove l’alea si possa concretizzare in mere azioni di regresso dell’Inail, sia qualora riguardi domande risarcitorie per danno differenziale e/o complementare.

Rco, due tesi a confronto 
Queste le ragioni a sostegno della tesi negatoria dell’efficacia traslatizia nel perimetro delle polizze Rco:
  • Si è detto della natura emergenziale e socio protettiva della disciplina contenuta nell’art. 42 comma II del decreto legge n. 18/2020. Il quadro di riferimento è dunque del tutto eccezionale e incidono su tale meccanismo normativo le considerazioni che ebbero già modo in passato di incentivare questa traslazione (l’estensione alla più ampia tutela dell’infortunio rispetto alla malattia sotto l’aspetto probatorio e causale). Per tale ragione, pertanto, si ritiene che si possa validamente sostenere il ristretto perimetro applicativo della definizione (estensiva) infortunio-malattia come alla sola tutela previdenziale.
  • Il tenore letterale dello stesso art. 42, del resto, sembra avvallare questa opinione: “i predetti eventi infortunistici (infezione da coronavirus in occasione di lavoro, ndr) gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli artt. 19 e seguenti del decreto del 27 febbraio 2019”; con ciò ribadendo non solo la assoluta eccezionalità ma anche la imputazione macroeconomica sul comparto previdenziale, a prescindere dalla sua collocazione sistemica. 
  • La stessa specificazione che l’Inail dà della particolare attribuzione violenta dell’azione da contagio (circolare 3 aprile 2020) attinge alla considerazione che “secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi infatti la causa virulenta è equiparata a quella violenta”, richiamando, quanto al detto “indirizzo vigente” proprio la circolare dell’Inail n. 74 del 1995 che abbiamo esaminato in precedenza. 
Al contrario, a contrastare le ragioni di inapplicabilità delle copertura Rco/infortuni alla materia, vi sono posizioni che ritengono come l’esasperazione del concetto di infortunio verso coperture abitualmente escluse, generi un effetto ampliativo delle coperture assicurative in argomento, magari sull’onda di una propagazione della crisi economica in emersione e della possibile esposizione della categoria imprenditoriale all’inasprimento di controversie per regresso dell’Inail o dirette del lavoratore (per danno differenziale).
A ben vedere, l’opinione più realistica in tale ambito, si rinviene nel già citato contributo a firma del dott. Marco Rossetti (L’assicurazione e l’emergenza Covid, Assicurazioni, 29 aprile 2020 - http://www.rivistaassicurazioni.com/Tool/Evidenza/Single/view_html?id_evidenza=44) ove si sostiene che l’impatto dell’art. 42 del decreto legge n. 18/2020 potrebbe avere una portata estensiva dell’oggetto di un’assicurazione della responsabilità civile del datore di lavoro verso i dipendenti o verso l’Inail (in sede di regresso), nella sola ipotesi in cui la polizza stessa preveda che l’assicuratore tenga indenne l’assicurato di quanto questi possa essere costretto a pagare al lavoratore o all’assicuratore sociale in conseguenza di un “infortunio” di cui al dpr n. 1124/65, cit. Sostiene l’illustre autore che “qui il problema va così ricostruito: il contratto contiene una relatio ad una norma di legge. Il rinvio di un contratto a una norma di legge può essere di due tipi: recettizio o non recettizio. È recettizio quando la norma richiamata viene incorporata nel contratto e diventa essa stessa clausola contrattuale per volontà delle parti”.

Polizze infortuni, un contratto più semplice
Certamente più agevole negare la tesi (pur sostenuta da una parte della dottrina medico legale, cfr. Zoja, Sars-CoV-2 e infortunio nell’assicurazione privata: annotazioni medico legali, in Ridare del 19 maggio 2020, e Pedoja, Interpretazione art. 42 comma 2 Dpcm 17.3.2020 in contesto polizza privata, in Intermediachannel.it; contrario Mastroroberto, Polizza Infortuni e infezione da Covid-19 nel DL n. 18/2020 e nella circolare Inail n. 3675/2020, in Ridare del 21 aprile 2020) della predicabilità di una nozione di infortunio, così eccezionalmente delineato, nella cornice delle polizze private infortuni.
Ebbene, è noto che – fuori dal contesto delle polizze obbligatorie, ove il quadro assicurativo è garantito dalla legge – nelle altre polizze volontarie, il regime contrattuale costituisce unica fonte regolatrice dei vincoli delle parti e, nella specie, dell’assicuratore (Cass. SS.UU. n. 5119 del 10 aprile 2002).
Invero, il riferimento va fatto, innanzitutto, alla predicabilità delle considerazioni che precedono nell’ottica della non indennizzabilità delle malattie pandemiche in questione, oltre che nelle coperture obbligatorie per infortuni sul lavoro, anche, e a maggior ragione, nelle polizze private infortuni.
Oltre alle ragioni di totale distonia della disciplina e a quelle di natura etimologico/assicurativa del fenomeno “infortunio” contrattualmente garantito, valga in questa sede anche la considerazione che per essere indennizzabile l’infortunio deve altresì essere causa unica ed esclusiva del fatto accidentale, violento ed esterno, ipotesi che non appare predicabile per la maggior parte delle conseguenze dirette dell’infezione da coronavirus. È stato, a nostro giudizio, correttamente sostenuto che “l’art. 42 del decreto legge n. 18/20 è norma che alla stregua dei princìpi sommariamente ricordati (princìpi, è bene ricordare, millenari) non si occupa affatto dei contratti privati di assicurazione. È norma che amplia l’oggetto dell’assicurazione sociale, e qualunque statuizione o definizione essa contenga, questa va letta e riguardata in relazione allo scopo, e non ad altri fini.
Pretendere che le polizze infortuni debbano coprire il rischio di contagio da Covid-19, in assenza di qualsiasi patto contrattuale, solo perché esiste l’art. 42 del decreto legge n. 18/20 è affermazione che getta “nel cestino della carta straccia secoli di civiltà giuridica” (M. Rossetti, cit.).

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