Insurance Trade

L’intricata questione dell’Ilva di Taranto

L’acciaieria si trova al centro dell’attenzione mediatica da anni e se ne discute ancora, per questioni economiche, legali e di salute pubblica che travalicano la dimensione locale di questo grande impianto siderurgico

L’intricata questione dell’Ilva di Taranto hp_vert_img
Fondata nel 1905, l’Ilva fu battezzata con lo stesso nome che i latini davano all’Elba, isola ricca di minerali ferrosi che fu a lungo la miniera di Roma, e divenne presto la punta di diamante della siderurgia italiana. Nel 1934 il controllo finanziario passò all’Iri, poi Finsider, e nel dopoguerra da quest’ultima venne costituita la Nuova Italsider. La sede principale è sempre stata a Taranto, ma con filiali a Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera, Patrica. Alla fine degli anni ‘80, la crisi dell’industria dell’acciaio determinò il rapido declino dell’industria siderurgica pubblica e così, nel 1995, l’Italsider venne privatizzata, tramite cessione al Gruppo Riva, riacquistando l’antica denominazione.

I danni alla salute dei cittadini

Quello di Taranto è forse il più grande impianto siderurgico d’Europa, con una superficie di oltre 15 milioni di metri quadri, cinque altiforni, 12 batterie di cokerie, numerose linee di laminazione e più di 10mila dipendenti. Sono inoltre numerose le società che hanno vissuto e ancora vivono dell’indotto, circa 200, con un giro di affari annuo stimato in quasi mezzo miliardo di euro. Il limitrofo quartiere Tamburi, costruito per accogliere gli operai dello stabilimento e le loro famiglie, contava fino a qualche anno fa almeno 18mila abitanti. Purtroppo, però, questo impianto è assai antiquato e utilizza materiali combustibili altamente nocivi, causando un gravissimo inquinamento nelle zone circostanti. Uno studio epidemiologico dei primi anni 2000 ha rivelato che tra il 1988 e il 2001 il tasso di mortalità da tumori, nel quartiere di Cornegliano ove sorge lo stabilimento di Genova, è rimasto costantemente al di sopra della media registrata in tutta la Liguria. Le proteste e le denunce che ne sono derivate hanno indotto la proprietà a chiudere le cokerie e un altoforno, segnando la fine dell’era dell’acciaio nel capoluogo ligure, con una considerevole riduzione del tasso di inquinamento e un forte aumento di quello di disoccupazione in tutta l’area. 
Buona parte delle lavorazioni sono state trasferite a Taranto e le emissioni di diossina dell’acciaieria pugliese sono aumentate drasticamente, triplicando tra il 2002 e il 2006, in modo da rendere non coltivabili i campi dell’area circostante. La Regione Puglia è allora intervenuta con un’ordinanza che proibiva il pascolo nel raggio di 20 chilometri dalla zona industriale, causando la fine di un florido commercio di latticini e prodotti tipici locali. Tracce di diossina e PCB sono state rinvenute anche negli allevamenti di molluschi del golfo della città. La procura locale ha quindi aperto una serie di procedimenti, ordinando nuove perizie epidemiologiche. Ne è scaturito che, tra il 2003 e il 2008, nei comuni più vicini si è registrato un aumento del 12% dei decessi da tumore, con punte del 24% per i tumori del fegato e dei polmoni. I mesoteliomi sono aumentati addirittura del 306%. 
Un rapporto di Peacelink ha rilevato un aumento del 35% nei decessi di bambini al di sotto del primo anno di età e del 71% nel periodo perinatale.
La perizia epidemiologica si è conclusa in modo lapidario: “L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.

L’intervento della magistratura

Nel 2012 la magistratura di Taranto ha disposto il sequestro dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico e l’arresto di Emilio Riva e del figlio Nicola, dell’ex direttore dello stabilimento e di altri dirigenti e responsabili, con l’accusa di reato ambientale. Proprietari e dirigenti della società sono stati imputati di omissione dolosa di cautela contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, inquinamento atmosferico, danneggiamento aggravato dei beni pubblici e sversamento di sostanze pericolose.
Gli interventi avviati dalla magistratura per la protezione della salute dei cittadini hanno prodotto alcuni effetti positivi e determinato il crollo del PM10 (le particelle sottili dannose per l’uomo) nelle due centraline del quartiere Tamburi, ma si è trattato solo di un primo passo. Da quel momento, la storia di questo stabilimento è stata un continuo rimpallo di decisioni volte a cercare di salvaguardare la salute dei cittadini e, nel contempo, le migliaia di posti di lavoro di una delle strutture più importanti dell’economia meridionale. Nel 2015, l’azienda è stata condannata per disastro ambientale doloso, ma la sentenza è stata poi annullata nel 2018 dalla Corte di Cassazione. Nel 2019, il cosiddetto “decreto salvini” ha istituito una commissione straordinaria per la bonifica dell’area e il risanamento ambientale. La proprietà è passata di mano in mano: al momento, l’Ilva è posseduta al 68% da Arcelor Mittal, il più grande gruppo siderurgico del mondo, e per la restante parte ancora dallo Stato italiano. 

“Ambiente svenduto”

Il procedimento noto come Ambiente svenduto, si concluse in primo grado (nel 2021) con la condanna, tra gli altri, dei vertici industriali dell’azienda, del presidente della Regione Puglia e del dirigente dell’Arpa locale. Si discusse di danni alla vita e all’integrità fisica, dall’omicidio colposo alla mortalità per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno. Secondo i magistrati tarantini l’Ilva avrebbe anche attestato, nel suo piano di monitoraggio e rendicontazione, falsi quantitativi di consumi di materie prime, gas, prodotti finiti e semilavorati e relative giacenze, alterando i parametri di riferimento per i livelli di emissione. L’alterazione di questi dati avrebbe ingannato il funzionamento del Sistema europeo di scambio di quote di emissione istituito dalla direttiva Ets, il principale strumento previsto dall’Ue per la riduzione delle emissioni di gas nei settori energivori, in base al Protocollo di Kyoto. 
Tale sistema fissa un tetto massimo al livello complessivo delle emissioni consentite, permettendo di acquistare e vendere sul mercato il diritto di emettere quote di CO2, entro un determinato quantitativo. Il meccanismo ha lo scopo di mantenere alti i prezzi dei titoli, per disincentivare la domanda e indurre le imprese europee a inquinare di meno. 
La Procura di Taranto ha ipotizzato che in questo complesso sistema di calcolo si sarebbe consumato un raggiro da circa mezzo miliardo di euro e ha notificato avvisi di garanzia ai vertici dell’azienda e ai politici coinvolti.
Com’è intuibile, la questione coinvolge molteplici attori, tra cui l’azienda stessa, le autorità locali, le organizzazioni ambientaliste e migliaia di altre parti interessate. Si tratta di un caso assai complesso che riguarda la responsabilità dell’azienda e delle autorità nella gestione dell’inquinamento di un’area vasta e popolosa e dei cittadini che vivono al suo interno. L’Ilva è certamente un importante attore nell’economia del Paese e il suo caso solleva molti interrogativi sul ruolo dell’industria siderurgica nel contesto italiano e sulla necessità di trovare un equilibrio tra la tutela dell’ambiente e la salvaguardia dell’occupazione e dell’economia locale. 

La class action intentata dall’Associazione Genitori Tarantini

Arriviamo alla fine dello scorso anno: una rara mutazione genetica diagnosticata a un bambino spinge un gruppo di genitori a fondare l’Associazione Genitori Tarantini, che intenta una class action, firmata da 136 persone, di fronte alla Corte di Giustizia Ue. Questo tipo di azione collettiva può risultare vincente per le questioni ambientali, per via del carattere di forte rappresentatività che la distingue. Essa può consentire a persone, che non avrebbero i mezzi o le risorse per agire singolarmente, di unirsi per avanzare una richiesta di risarcimento, fornendo l’opportunità di far sentire la loro voce su questioni che travalicano le Istituzioni nazionali.
La Commissione Ue ha una posizione privilegiata per affrontare tali questioni, poiché può promuovere politiche comuni a livello europeo e adottare misure che coinvolgono più paesi. Se tale azione collettiva riuscisse a dimostrare la violazione di norme o politiche ambientali, la Commissione potrebbe obbligare gli Stati membri a intraprendere azioni correttive, rivedendo le proprie politiche.
Il 25 giugno scorso, con la decisione C-626/22 sull’interpretazione della Direttiva 2010/75/Ue sulle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento), la Corte ha chiarito che gli Stati dell’Unione, nel corso delle procedure di rilascio o di riesame dell’autorizzazione a operare, devono effettuare una valutazione preventiva degli effetti dell’attività sull’ambiente e sulla salute umana, tenendo conto della natura e del tipo dell’impianto industriale interessato e delle sostanze inquinanti, oggetto di emissioni scientificamente riconosciute come nocive, emesse dallo stesso. L’autorità competente italiana, tuttavia, avrebbe ripetutamente prorogato il termine concesso al gestore per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute dei cittadini, attraverso i decreti promulgati per salvaguardare l’attività dell’impianto, sebbene fossero stati individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana.
In presenza di tali rischi, l’l’articolo 8, comma 2, § 2 della direttiva impone la sospensione dell’esercizio dell’impianto.

La sentenza della Corte di Appello di Taranto 

Il 13 settembre 2024 la Corte di Appello di Taranto, con una decisione inaspettata, ha tuttavia annullato la sentenza di primo grado cui abbiamo accennato, che risale al 2021, richiedendo il trasferimento del processo a Potenza e accogliendo la richiesta delle difese, secondo le quali i giudici di primo grado non avrebbero avuto la serenità necessaria per pronunciarsi. Vi sarebbe, infatti, un’incompatibilità ambientale, perché i giudici impegnati nel processo, residenti nei quartieri di Taranto indicati come luoghi colpiti dal disastro ambientale, sarebbero parti lese del reato medesimo. Il processo ripartirà da Potenza, con il pericolo che diverse sue parti vadano in prescrizione.
Cercando di mettere a posto questa lunga vicenda, bisogna ammettere che la vertenza dell’ex Ilva, nel frattempo divenuta Acciaierie d’Italia, appare davvero come una matassa inestricabile, anche perché i soggetti interessati sono numerosissimi, dal Governo alla Regione Puglia, dal Comune di Taranto alla dirigenza dell’azienda, dai sindacati alla Confindustria, dall’Unione Europea all’Antitrust, dalla Cassa Depositi e Prestiti a Invitalia e alle associazioni ambientaliste.
La questione ambientale risulta critica per la popolazione tarantina, anche perché le primarie esigenze di tutela dell’ambiente e della salute sono ora riconosciute chiaramente dalla nostra Costituzione. Ma un altro aspetto altrettanto critico e contrastante riguarda la condizione lavorativa dei dipendenti dell’azienda e delle loro famiglie: parliamo di circa 50mila cittadini, considerato anche l’indotto. D’altro canto, le opere di bonifica si susseguono lentamente, con interventi parziali, e la società è sommersa dai debiti accumulati, cui il governo cerca di far fronte con finanziamenti straordinari.
Ci si chiede fino a che punto si possa difendere un lavoro che uccide e, comunque, si dovrà pur trovare una soluzione, all’indomani della decisione della Corte di Giustizia Ue del 25 giugno scorso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I più visti