Hikikomori: cos’è e perché è tanto preoccupante
Il gruppo multidisciplinare di ricerca denominato MUSA (Mutamenti sociali, valutazione e metodi) dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr di Roma ha pubblicato un rapporto allarmante sui cosiddetti “lupi solitari”: i giovani che scelgono l’isolamento, rifiutando di incontrare chiunque, genitori compresi

14/04/2025
È il fenomeno ormai noto come Hikikomori: una condizione psico-sociale caratterizzata dalla volontà di ritirarsi dalla società, inizialmente diffusa tra gli adolescenti giapponesi.
Per alcuni studiosi di psicologia, questo fenomeno sarebbe collegato al cosiddetto Disturbo d’ansia sociale (DAD), o Workaholism (dipendenza dal lavoro) di molti genitori e allo Studyholism (termine che si riferisce a qualcuno che passa un’enorme quantità di tempo a studiare) dei ragazzi.
COM’È NATO L’HIKIKOMORI E DI COSA SI TRATTA
Il fenomeno sarebbe nato nei primi anni Ottanta in Giappone e riguardava soprattutto i giovani di età compresa fra 14 e 30 anni, principalmente maschi. Il termine è composto dall’unione delle parole Hiku e Komuru: letteralmente, significa “stare in disparte” e viene riferito a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (anche per diversi anni o per sempre). Esso indica una condizione in cui l’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere, per chi ne soffre, l’allontanamento e la scomparsa dalla società.
Nei casi più critici, gli hikikomori si ritirano nella propria stanza, rifiutandosi di uscire anche per lavarsi o nutrirsi, oppure comunicano con la famiglia con biglietti, nei quali chiedono di lasciare del cibo davanti alla porta, rifiutando ogni contatto diretto con il mondo esterno.
Queste persone rimangono sveglie durante la notte, invertendo il normale circolo sonno-veglia, e si dedicano ai videogiochi e alla navigazione su internet. In alcuni casi, finiscono col crearsi una sorta di identità virtuale, sviluppando delle vere e proprie amicizie, anch’esse virtuali.
Sebbene questo fenomeno insorga principalmente durante l’adolescenza, esso tende a cronicizzarsi con molta facilità e, secondo gli studiosi, potrebbe arrivare a durare per tutta la vita.

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DIFFUSIONE DI UN FENOMENO NON PIÙ ESCLUSIVAMENTE GIAPPONESE
Come si è accennato, il fenomeno è ancora relativamente giovane e questa è la ragione per cui abbiamo ancora informazioni frammentarie e, soprattutto, poche idee circa le possibili soluzioni.
Come detto, nato in Giappone negli anni Ottanta, ha subito un incremento sostanziale verso la fine degli anni Novanta. Secondo alcune fonti, nella seconda metà degli anni Duemila i giapponesi coinvolti sarebbero stati addirittura un milione, circa l’1% della popolazione. Stime più caute parlano di un numero di individui compreso fra 100mila e 320mila.
La questione è che molte famiglie provano vergogna per la presenza di hikikomori al loro interno, oppure non sono coscienti della gravità dell’isolamento e delle sue conseguenze. Il fatto che si tratti di una patologia prevalentemente maschile è pure opinabile: le adolescenti tendono a stare in casa più dei loro coetanei maschi ed è assai possibile che il fenomeno risulti per esse assai meno evidente.
Non si tratta, si diceva, di un fenomeno esclusivamente giapponese.
Nella sola Parigi, tra il 2011 e il 2012, sono stati individuati 30 casi di persone di età compresa tra i 16 e i 30 anni, tra i quali risultavano particolarmente colpiti i soggetti con scarsa vita sociale o coloro che non avevano completato o avevano avuto difficoltà a completare gli studi.
Al contrario di quanto accade in Giappone, in Francia il fenomeno non è riconosciuto dalle autorità, ma secondo gli esperti il numero di hikikomori francesi si aggirerebbe sulle decine di migliaia.
In Italia si stima che un individuo ogni 250 sia soggetto a comportamenti a rischio di reclusione sociale; altre stime parlano invece di un individuo su 200.
Nel 2013, secondo la Società italiana di psichiatria, circa tre milioni di italiani tra i 15 e i 40 anni soffrivano di questa patologia, ma il disturbo era spesso associato o confuso con la dipendenza da internet. In quegli anni, le stime parlavano di 240mila adolescenti italiani che trascorrevano più di tre ore al giorno tra internet e videogiochi, ma poi è intervenuta la pandemia e le cifre sono cambiate radicalmente, raggiungendo numeri preoccupanti.
L’Associazione Hikikomori Italia ha coinvolto un campione di genitori in un’indagine statistica che ha rivelato che:
- l’87,85% delle famiglie che hanno partecipato, ha un figlio in isolamento sociale volontario (parliamo di nuclei già coinvolti nel fenomeno, ma si tratta comunque di cifre allarmanti);
- gli hikikomori in Italia hanno in media 20 anni, con sintomatologie che si manifestano già attorno ai 15 anni;
- il terzo stadio, che rappresenta l’isolamento totale, nel quale vengono evitati anche genitori e le relazioni virtuali, riguarda il 6,69% del campione oggetto di studio: chi si trova in questa condizione ha verosimilmente sviluppato una qualche forma psicopatologica associata al ritiro.
Il fenomeno, infine, riguarda entrambi i sessi e non presenta sostanziali differenze regionali, relative alla tipologia scolastica frequentata o al background socio-culturale ed economico familiare, come invece si è supposto in passato. Ciò potrebbe dire che il problema sta diventando sempre più globale ed endemico.
IL RUOLO DELLA PANDEMIA E LA SOVRAESPOSIZIONE AI SOCIAL MEDIA
Come sappiamo, la pandemia di Covid-19 ha esacerbato la mutazione delle relazioni verso la sfera virtuale. In particolare, l’iperconnessione, ossia la sovraesposizione ai social media, ha avuto un ruolo primario in questa sorta di processo corrosivo dell’interazione e dell’identità che sembra aver caratterizzato gli adolescenti, intaccando il loro benessere psicologico.
L’iperconnessione, secondo lo studio, non sarebbe comunque il principale responsabile di questo fenomeno di autoisolamento ma interverrebbe nell’esplosione delle ideazioni suicidarie giovanili, come abbiamo illustrato nell’articolo Il rapporto tra social network e salute mentale dei giovani, apparso su Insurance Daily il 19 dicembre scorso.
Dati alla mano, dal 2019 al 2022 sono drasticamente aumentati i giovani che si limitano alla sola frequentazione della scuola ed è significativamente diminuita l’abitudine a trascorrere il tempo libero con gli amici, per lo meno di persona: i cosiddetti lupi solitari si sarebbero moltiplicati, passando dal 15 al 39,4% in soli tre anni.
Insomma, la pandemia avrebbe causato un notevole incremento del fenomeno degli hikikomori in tutto il mondo e anche in Italia. Il mancato contatto sociale e la DAD hanno aumentato il sentimento di sfiducia verso gli altri e l’uso dei dispositivi elettronici, come computer, cellulari e tablet.
Coloro che erano già in difficoltà a gestire le relazioni interpersonali hanno così subito una vera e propria regressione e una chiusura emotiva verso il mondo circostante, preferendo la realtà virtuale e apprezzando la possibilità di rendersi anonimi, arrivando a modificare la propria fisicità e avendo la possibilità di vivere, in un certo senso, senza alcun coinvolgimento diretto.

© Friedrich Teichmann - pixabay
LE CONSEGUENZE DELL’ISOLAMENTO
La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sugli hikikomori, che perdono gradualmente le loro competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno.
Queste persone sono spesso soggette all’agorafobia e dunque non sono in grado di uscire di casa o si limitano a uscire per procurarsi pasti precotti o preconfezionati in negozi molto vicini alla loro abitazione. I più giovani non riescono a immaginare sé stessi adulti e finiscono con l’apparire infelici, perdere le amicizie, la sicurezza e la fiducia in sé stessi, con un aumento dell’aggressività verso i genitori (pare che il 40-50% tratterebbe i propri genitori con violenza).
Molti fattori contribuiscono a creare una certa confusione, anche tra gli studiosi, nell’individuazione del fenomeno. Alcune caratteristiche di questi giovani sono comparabili al ritiro sociale che colpisce gli individui soggetti ad autismo, il che ha condotto alcuni psichiatri a formulare l’ipotesi che gli hikikomori possano essere influenzati dai disturbi che colpiscono l’integrazione sociale, alterati, però, rispetto alla loro forma tipica, soprattutto a causa delle pressioni sociali e culturali che marcano la cultura odierna.
Questi soggetti sono caratterizzati, oltre che da una scarsa qualità delle relazioni sociali, da una tendenza a essere vittime di bullismo (soprattutto, cyberbullismo), dalla scarsa partecipazione alle pratiche sportive e in genere dall’insoddisfazione per sé stessi e per il proprio corpo.
Tali fattori, alimentati dall’influenza pervasiva delle pressioni sociali a conformarsi a standard irraggiungibili (anche estetici), erodono la loro autostima, favorendo quel senso di inadeguatezza nelle interazioni sociali con i coetanei che li spinge all’isolamento. Studi condotti in Giappone hanno evidenziato la correlazione tra lo stato di hikikomori e la presenza di disturbi mentali secondari, come depressione, disturbi ossessivo-compulsivi e della personalità, fino ad arrivare a disabilità intellettive più o meno gravi.
Ad oggi, purtroppo, non c’è una diagnosi ufficiale, perché il fenomeno è stato studiato principalmente in Oriente. Data l’assenza di consenso sulla necessità di considerare o meno l’hikikomori come una sindrome, il DSM-5, ovvero il manuale diagnostico dei disturbi mentali, non ha ancora incluso alcun tipo di riferimento a questa condizione.
SE L’HIKIKOMORI È UNA MALATTIA, C’È UNA CURA?
Come si è accennato, gli psichiatri sono divisi nella concettualizzazione di questo fenomeno.
Per alcuni, le persone affette hanno sempre un disturbo psicologico già presente all’interno dei sistemi di classificazione diagnostica e non è quindi necessaria una nuova categoria specifica per esso.
Altri sono a favore della distinzione tra Hikikomori primario e secondario, sostenendo che, sebbene alcuni soggetti abbiano effettivamente un disturbo psicologico che spieghi l’auto-reclusione, c’è comunque una parte di persone per cui non è individuabile alcun disturbo psichiatrico e, dunque, la loro condizione non deve essere ritenuta come patologica.
Infine, c’è chi ritiene che alcuni soggetti possano avere una diagnosi psichiatrica pre-esistente, mentre per altri sia necessario introdurre una nuova patologia nella sezione del DSM dedicata alle sindromi culturali.
In tanti casi, quindi, c’è convergenza nel considerare questo stato come patologico: l’Hikikomori sarebbe una malattia. Ma come si cura? Quali sono i rimedi all’isolamento sociale? Come aiutare le persone affette e le loro famiglie?
La psicologia ha qualche difficoltà a intervenire in prima persona, perché raramente un hikikomori si rivolge spontaneamente a un terapeuta: il più delle volte, il supporto si rende necessario per la famiglia che non sa come comportarsi.
Gli psicologi esperti in questa sindrome potranno quindi indagare le cause, valutare i sintomi e analizzare i comportamenti della persona affetta, il contesto sociale e familiare in cui vive e i possibili disagi che questi possono causare. Una terapia psicologica per la sindrome di Hikikomori può essere svolta da uno psicologo a domicilio o con l’aiuto della psicoterapia online. In alcuni casi, insieme alla psicoterapia, l’hikikomori potrà ricevere anche una terapia farmacologica prescritta dallo psichiatra.
Ci muoviamo, comunque, in un territorio assai poco esplorato e ci vorrà del tempo per aiutarci a capire come intervenire sulle persone che dovessero ricevere una diagnosi di questo tipo.
UNA SFIDA PER IL COMPARTO ASSICURATIVO?
Per il comparto assicurativo, poi, si aprono nuove sfide: se l’Hikikomori è una malattia, sarà assicurabile? Come sappiamo, definiamo infortunio un evento dovuto a cause fortuite, violente ed esterne, che causi all’assicurato la morte o lesioni fisiche oggettivamente verificabili e malattia o infermità qualsiasi condizione che alteri la salute dell’assicurato e non dipenda da un incidente.
Se questa sindrome dovesse essere accertata come malattia, ci troveremo quindi nella condizione di pensare esclusioni specifiche per un fenomeno che rischia di dilagare, investendo non soltanto i più giovani, ma anche tanti soggetti già in età lavorativa?
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