Risk manager cercasi
Solo una minima parte delle medie imprese italiane ricorre a una figura professionale specialistica per la gestione del rischio. Ma chi investe registra performance economiche migliori
22/06/2015
Nel prossimo triennio un'azienda su quattro aumenterà le risorse dedicate al risk management. Le medie imprese italiane, con un fatturato di circa 65 milioni di euro, in cui la quota dell'export vale il 45%, che investono in questo ambito realizzano una redditività industriale del 20-30% superiore rispetto a quelle che trascurano il rischio. È questa la carta d'identità tratteggiata nell'analisi condotta da Cineas, in collaborazione con Mediobanca e con il contributo di UnipolSai.
All'indagine, nell'ambito del terzo Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese, presentata al Politecnico di Milano, hanno partecipato 257 aziende appartenenti ai settori: alimentare, beni di consumo, chimico-farmaceutico, carta e stampa, meccanico e metallurgico.
In generale, la percezione e la sensibilità del rischio è in aumento secondo Adolfo Bertani, presidente Cineas. “Ben il 74% del campione analizzato – sottolinea il numero uno del Consorzio – ritiene che il risk management sia un'opportunità, mentre in passato era un costo che gravava sul bilancio”.
C’è però un problema di fondo: manca un approccio sistemico e globale della gestione dei rischi. “Solo poche aziende hanno la figura strutturata di risk management – evidenzia Bertani –. D'altra parte c'è la consapevolezza che bisogna investire (67,5% nelle imprese) nella formazione dei dipendenti sulle tematiche del rischio. Complessivamente, per le aziende che gestiscono il rischio le performance economiche migliorano mediamente del 27%”.
Inoltre, la novità dell'ultimo osservatorio fotografa uno scenario controverso. Rispetto alle precedenti indagini, il rischio finanziario, che era il più percepito, è stato sostituito da altri: rischi operativi, legali e informatici. Accanto a questo contesto si inseriscono poi alcune insidie strategiche. Si è registrata la tendenza a trascurare, o quanto meno ritenere marginali, i rischi reputazionali e quelli connessi alla perdita di competenza professionale.
“In prospettiva – ammonisce Bertani – sono pericoli che le imprese medie devono attenzionare. Anche perché oggi siamo di fronte ad una transizione nella cultura del rischio. Per cui bisogna investire nella gestione dei rischi e far crescere nuove competenze in questa direzione”.
Gabriele Barbaresco, direttore ufficio studi Mediobanca, ha presentato i dati dell’analisi, rimarcando come la maggiore attenzione sia dedicata alle fasi produttive e ai rapporti con i clienti e fornitori. Mentre viene riservata minore attenzione al fatto che ci sia un’adeguata percezione e protezione dei rischi da danno reputazionale e da disaster recovery – ambiti questi percepiti come vitali in altre aree avanzate dell'Europa – che risultano però collegati e strategici per il futuro aziendale.
“Questo tipo di eventi – avverte Barbaresco – ha una probabilità di accadimento remota, ma un’incidenza dei danni pressoché irreversibile”.
Per un segnale potenzialmente negativo, sotto il profilo strategico, si rileva però anche un elemento positivo a livello di scenario macro economico: in controtendenza rispetto al recente passato, infatti, il paventato credit crunch risulta allentato e il legame delle medie imprese con il settore bancario va stringendosi con sempre maggiore frequenza. In questo senso, impresa e banca non sono più cane e gatto.
Anzi “ci troviamo di fronte a rischi, ma anche a opportunità”, ha rilevato Paolo Garonna, segretario generale della Federazione delle banche, delle assicurazioni e della finanza (Febaf): “il nostro paese, nel rapporto tra finanza e industria, si può considerare un cantiere aperto”. Infine, dall’analisi per area geografica dalla survey risalta il gap del mezzogiorno. Nel complesso, le attività di prevenzione e gestione dei rischi al Sud sono sei volte meno efficaci rispetto al Nord Est. In sostanza, le aziende meridionali percepiscono il rischio, ma gli strumenti che hanno per fronteggiarlo sono meno efficaci.
Risk management e incidenza sui costi
Il risk manager dov'è? Solo lo 0,2% ricorre alla figura specifica del risk manager. All’interno delle medie aziende manca, infatti, una professionalità di raccordo sui diversi profili di rischio. Nel quadro di riferimento attuale, i costi per la gestione del rischio assorbono il 3,5% del fatturato, pari a 2,3 milioni di euro per impresa. In prospettiva, per le imprese target è possibile stimare un mercato della gestione per il rischio pari a 4,4 miliardi di euro. Una copertura ottimale del rischio comporterebbe maggiori investimenti pari a circa 2 miliardi di euro. Considerando che per il prossimo triennio una media impresa su quattro dichiara di volere accrescere la propria spesa, si potrebbe attivare un volume di investimenti nell’ordine dei 500 milioni di euro. In quest’ottica, la riduzione dell’imponibile Irap (contenuta nella legge di Stabilità del 2015) libera risorse.
A livello di settore, invece, un ruolo da protagonista è giocato dal comparto alimentare, che si conferma leader per la diffusione del risk management. Ma al centro dell’agenda di presentazione della ricerca, anche il tema dell’internazionalizzazione e del made in Italy.
E proprio su quest’ultimo aspetto ha posto l’accento Gian Luigi Cola, amministratore delegato Faber Industrie. “In alcuni settori il made in Italy è un vantaggio competitivo, ma in altri non lo è. Perciò crogiolarsi sull’idea che sia un vantaggio per tutti può essere insidioso”, ha sottolineato.
Mentre Giorgio Basile, presidente Isagro e vicepresidente Cineas area imprese, ha chiesto alle compagnie assicurative di svolgere un lavoro “di consulenza per aiutare il cliente. Le imprese assicurative devono investire nella cultura del rischio. Questo deve essere il punto di partenza”.
Il mondo assicurativo non esiste
Fare cartello a livello associativo. E’ stata la richiesta avanzata da più fronti all’universo assicurativo. In merito Franco Ellena, direttore generale di UnipolSai, ha così tracciato l’attuale contesto di riferimento: “Il mondo assicurativo in quanto tale, cioè mondo, non esiste. Ogni grande impresa fa la sua corsa. E non c’è un’associazione che può in qualche modo fare una sintesi. Siamo tre grandi gruppi, come minimo, e ce le daremo di santa ragione nei prossimi anni”. Non ci potrà, quindi, essere un fronte unito e compatto ma ogni azienda, chiosa Ellena, “sceglierà il suo posizionamento e come migliorare la sua professionalità per dare un servizio al proprio target. Se pensiamo di avere un’associazione…beh questo non esiste più”. E infine un monito agli assicuratori che si trovano, comunque, di fronte ad una sfida comune: “Se dobbiamo contribuire ad una cultura del rischio e di gestione, dobbiamo prima di tutto imparare a farla, e non pensare che la cultura del rischio sia una polizza con più o meno garanzie, con più o meno costi”.
All'indagine, nell'ambito del terzo Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese, presentata al Politecnico di Milano, hanno partecipato 257 aziende appartenenti ai settori: alimentare, beni di consumo, chimico-farmaceutico, carta e stampa, meccanico e metallurgico.
In generale, la percezione e la sensibilità del rischio è in aumento secondo Adolfo Bertani, presidente Cineas. “Ben il 74% del campione analizzato – sottolinea il numero uno del Consorzio – ritiene che il risk management sia un'opportunità, mentre in passato era un costo che gravava sul bilancio”.
C’è però un problema di fondo: manca un approccio sistemico e globale della gestione dei rischi. “Solo poche aziende hanno la figura strutturata di risk management – evidenzia Bertani –. D'altra parte c'è la consapevolezza che bisogna investire (67,5% nelle imprese) nella formazione dei dipendenti sulle tematiche del rischio. Complessivamente, per le aziende che gestiscono il rischio le performance economiche migliorano mediamente del 27%”.
Inoltre, la novità dell'ultimo osservatorio fotografa uno scenario controverso. Rispetto alle precedenti indagini, il rischio finanziario, che era il più percepito, è stato sostituito da altri: rischi operativi, legali e informatici. Accanto a questo contesto si inseriscono poi alcune insidie strategiche. Si è registrata la tendenza a trascurare, o quanto meno ritenere marginali, i rischi reputazionali e quelli connessi alla perdita di competenza professionale.
“In prospettiva – ammonisce Bertani – sono pericoli che le imprese medie devono attenzionare. Anche perché oggi siamo di fronte ad una transizione nella cultura del rischio. Per cui bisogna investire nella gestione dei rischi e far crescere nuove competenze in questa direzione”.
Gabriele Barbaresco, direttore ufficio studi Mediobanca, ha presentato i dati dell’analisi, rimarcando come la maggiore attenzione sia dedicata alle fasi produttive e ai rapporti con i clienti e fornitori. Mentre viene riservata minore attenzione al fatto che ci sia un’adeguata percezione e protezione dei rischi da danno reputazionale e da disaster recovery – ambiti questi percepiti come vitali in altre aree avanzate dell'Europa – che risultano però collegati e strategici per il futuro aziendale.
“Questo tipo di eventi – avverte Barbaresco – ha una probabilità di accadimento remota, ma un’incidenza dei danni pressoché irreversibile”.
Per un segnale potenzialmente negativo, sotto il profilo strategico, si rileva però anche un elemento positivo a livello di scenario macro economico: in controtendenza rispetto al recente passato, infatti, il paventato credit crunch risulta allentato e il legame delle medie imprese con il settore bancario va stringendosi con sempre maggiore frequenza. In questo senso, impresa e banca non sono più cane e gatto.
Anzi “ci troviamo di fronte a rischi, ma anche a opportunità”, ha rilevato Paolo Garonna, segretario generale della Federazione delle banche, delle assicurazioni e della finanza (Febaf): “il nostro paese, nel rapporto tra finanza e industria, si può considerare un cantiere aperto”. Infine, dall’analisi per area geografica dalla survey risalta il gap del mezzogiorno. Nel complesso, le attività di prevenzione e gestione dei rischi al Sud sono sei volte meno efficaci rispetto al Nord Est. In sostanza, le aziende meridionali percepiscono il rischio, ma gli strumenti che hanno per fronteggiarlo sono meno efficaci.
Risk management e incidenza sui costi
Il risk manager dov'è? Solo lo 0,2% ricorre alla figura specifica del risk manager. All’interno delle medie aziende manca, infatti, una professionalità di raccordo sui diversi profili di rischio. Nel quadro di riferimento attuale, i costi per la gestione del rischio assorbono il 3,5% del fatturato, pari a 2,3 milioni di euro per impresa. In prospettiva, per le imprese target è possibile stimare un mercato della gestione per il rischio pari a 4,4 miliardi di euro. Una copertura ottimale del rischio comporterebbe maggiori investimenti pari a circa 2 miliardi di euro. Considerando che per il prossimo triennio una media impresa su quattro dichiara di volere accrescere la propria spesa, si potrebbe attivare un volume di investimenti nell’ordine dei 500 milioni di euro. In quest’ottica, la riduzione dell’imponibile Irap (contenuta nella legge di Stabilità del 2015) libera risorse.
A livello di settore, invece, un ruolo da protagonista è giocato dal comparto alimentare, che si conferma leader per la diffusione del risk management. Ma al centro dell’agenda di presentazione della ricerca, anche il tema dell’internazionalizzazione e del made in Italy.
E proprio su quest’ultimo aspetto ha posto l’accento Gian Luigi Cola, amministratore delegato Faber Industrie. “In alcuni settori il made in Italy è un vantaggio competitivo, ma in altri non lo è. Perciò crogiolarsi sull’idea che sia un vantaggio per tutti può essere insidioso”, ha sottolineato.
Mentre Giorgio Basile, presidente Isagro e vicepresidente Cineas area imprese, ha chiesto alle compagnie assicurative di svolgere un lavoro “di consulenza per aiutare il cliente. Le imprese assicurative devono investire nella cultura del rischio. Questo deve essere il punto di partenza”.
Il mondo assicurativo non esiste
Fare cartello a livello associativo. E’ stata la richiesta avanzata da più fronti all’universo assicurativo. In merito Franco Ellena, direttore generale di UnipolSai, ha così tracciato l’attuale contesto di riferimento: “Il mondo assicurativo in quanto tale, cioè mondo, non esiste. Ogni grande impresa fa la sua corsa. E non c’è un’associazione che può in qualche modo fare una sintesi. Siamo tre grandi gruppi, come minimo, e ce le daremo di santa ragione nei prossimi anni”. Non ci potrà, quindi, essere un fronte unito e compatto ma ogni azienda, chiosa Ellena, “sceglierà il suo posizionamento e come migliorare la sua professionalità per dare un servizio al proprio target. Se pensiamo di avere un’associazione…beh questo non esiste più”. E infine un monito agli assicuratori che si trovano, comunque, di fronte ad una sfida comune: “Se dobbiamo contribuire ad una cultura del rischio e di gestione, dobbiamo prima di tutto imparare a farla, e non pensare che la cultura del rischio sia una polizza con più o meno garanzie, con più o meno costi”.
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