Cpi e dimissioni per giusta causa
Un filone di contenzioso nasce dalla richiesta di risarcimento anche a fronte della perdita volontaria di impiego, con il rifiuto di liquidazione da parte delle compagnie. Ecco quali sono, secondo gli orientamenti giurisprudenziali in materia, i termini di intervento delle coperture assicurative in questo casi
22/07/2015
Le polizze Cpi si trovano ad assumere un rilievo crescente nell’ambito del contenzioso assicurativo, in considerazione della loro ampia diffusione sul mercato e della delicata funzione economico-sociale svolta.
Una delle coperture assicurative che negli ultimi anni ha registrato un aumento dal punto di vista del contenzioso (ed è intuitivo comprenderne le motivazioni) è quella derivante da sinistri quali la “perdita di impiego” o la “disoccupazione”.
In estrema sintesi, questo tipo di garanzia assicurativa prevede la corresponsione di un indennizzo o di una prestazione nel caso in cui il soggetto assicurato venga licenziato e perda in tal modo il lavoro: il rischio assicurato è normalmente la perdita di impiego a seguito di licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”. Restano esclusi dalle coperture i sinistri derivanti dalle c.d. “dimissioni per giusta causa” ovvero quelle ipotesi in cui il lavoratore si dimette volontariamente dal posto di lavoro per non essere stato retribuito per un certo periodo di tempo.
Da qui si va incrementando un filone contenzioso che nasce dall’ “inevitabile” rifiuto di liquidazione da parte delle compagnie assicurative.
In questo tipo di casi gli assicurati tentano spesso di prospettare un’interpretazione (decisamente forzata, ad avviso di chi scrive) delle condizioni contrattuali e far passare la tesi secondo la quale dimettersi spontaneamente da un’azienda (sia pur insolvente) equivarrebbe ad esserne licenziati.
Insostenibile l’equiparazione tra pubblico e privato
L’assunto viene sovente fatto discendere dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 269/2002 che afferma il diritto dei lavoratori ad un’assistenza previdenziale pubblica in caso di cessazione del rapporto di impiego e al riconoscimento costituzionale (ex art. 38 della Costituzione) di tale intervento previdenziale.
Tale richiamo giurisprudenziale, appare tuttavia fuori termini ed inapplicabile ai casi di questo tipo.
Il pronunciamento della Corte, infatti, si colloca in un contesto pubblico e sociale, nel quale afferma che la protezione previdenziale vada estesa ai lavoratori colpiti da “disoccupazione involontaria”, che nulla ha a che vedere con il contesto dell’assicurazione privata correlata ad una specifica richiesta di finanziamento: carattere e natura giuridica di una polizza assicurativa privata legata ad un prestito di denaro, spesso finalizzato all’acquisto di un bene di consumo, sono completamente diversi rispetto a quelli socio/previdenziali dell’indennità pubblica di disoccupazione per il sostentamento dei lavoratori disoccupati.
I tentativi di equiparazione in questo senso non possono pertanto essere condivisi.
Il perimetro del rischio assicurato
Sembra dunque corretto ritenere che le dimissioni volontarie dovute al mancato pagamento dello stipendio, per quanto astrattamente (ed umanamente) comprensibili, costituiscano tuttavia una forma di perdita volontaria dell’impiego, frutto della libera determinazione del lavoratore medesimo e pertanto non rientrino nell’oggetto della copertura assicurativa qui esaminata.
Questa impostazione risulta confermata dai più recenti orientamenti giurisprudenziali che si vanno registrando in materia. Tra questi, si richiama l’ordinanza del 30.04.2014 del Tribunale di Lecco che ha rigettato il ricorso di un assicurato il quale si era licenziato “per giusta causa”. Il Giudice ha ritenuto che le condizioni di assicurazione (conosciute dall’aderente) siano molto chiare nel prevedere espressamente l’esclusione delle dimissioni dal rischio assicurato. Il Giudice ha altresì ritenuto “non giuridicamente corretto, ai fini assicurativi, il richiamo a quella giurisprudenza che, per diversi fini previdenziali ed indennitari, finisce con l’avvicinare le dimissioni per giusta causa al licenziamento”.
Una delle coperture assicurative che negli ultimi anni ha registrato un aumento dal punto di vista del contenzioso (ed è intuitivo comprenderne le motivazioni) è quella derivante da sinistri quali la “perdita di impiego” o la “disoccupazione”.
In estrema sintesi, questo tipo di garanzia assicurativa prevede la corresponsione di un indennizzo o di una prestazione nel caso in cui il soggetto assicurato venga licenziato e perda in tal modo il lavoro: il rischio assicurato è normalmente la perdita di impiego a seguito di licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”. Restano esclusi dalle coperture i sinistri derivanti dalle c.d. “dimissioni per giusta causa” ovvero quelle ipotesi in cui il lavoratore si dimette volontariamente dal posto di lavoro per non essere stato retribuito per un certo periodo di tempo.
Da qui si va incrementando un filone contenzioso che nasce dall’ “inevitabile” rifiuto di liquidazione da parte delle compagnie assicurative.
In questo tipo di casi gli assicurati tentano spesso di prospettare un’interpretazione (decisamente forzata, ad avviso di chi scrive) delle condizioni contrattuali e far passare la tesi secondo la quale dimettersi spontaneamente da un’azienda (sia pur insolvente) equivarrebbe ad esserne licenziati.
Insostenibile l’equiparazione tra pubblico e privato
L’assunto viene sovente fatto discendere dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 269/2002 che afferma il diritto dei lavoratori ad un’assistenza previdenziale pubblica in caso di cessazione del rapporto di impiego e al riconoscimento costituzionale (ex art. 38 della Costituzione) di tale intervento previdenziale.
Tale richiamo giurisprudenziale, appare tuttavia fuori termini ed inapplicabile ai casi di questo tipo.
Il pronunciamento della Corte, infatti, si colloca in un contesto pubblico e sociale, nel quale afferma che la protezione previdenziale vada estesa ai lavoratori colpiti da “disoccupazione involontaria”, che nulla ha a che vedere con il contesto dell’assicurazione privata correlata ad una specifica richiesta di finanziamento: carattere e natura giuridica di una polizza assicurativa privata legata ad un prestito di denaro, spesso finalizzato all’acquisto di un bene di consumo, sono completamente diversi rispetto a quelli socio/previdenziali dell’indennità pubblica di disoccupazione per il sostentamento dei lavoratori disoccupati.
I tentativi di equiparazione in questo senso non possono pertanto essere condivisi.
Il perimetro del rischio assicurato
Sembra dunque corretto ritenere che le dimissioni volontarie dovute al mancato pagamento dello stipendio, per quanto astrattamente (ed umanamente) comprensibili, costituiscano tuttavia una forma di perdita volontaria dell’impiego, frutto della libera determinazione del lavoratore medesimo e pertanto non rientrino nell’oggetto della copertura assicurativa qui esaminata.
Questa impostazione risulta confermata dai più recenti orientamenti giurisprudenziali che si vanno registrando in materia. Tra questi, si richiama l’ordinanza del 30.04.2014 del Tribunale di Lecco che ha rigettato il ricorso di un assicurato il quale si era licenziato “per giusta causa”. Il Giudice ha ritenuto che le condizioni di assicurazione (conosciute dall’aderente) siano molto chiare nel prevedere espressamente l’esclusione delle dimissioni dal rischio assicurato. Il Giudice ha altresì ritenuto “non giuridicamente corretto, ai fini assicurativi, il richiamo a quella giurisprudenza che, per diversi fini previdenziali ed indennitari, finisce con l’avvicinare le dimissioni per giusta causa al licenziamento”.
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