Il danno da lesione del rapporto tra nonni e nipoti
Il decesso di una nonna, non convivente con i nipoti riapre la questione sul diritto di questi a vedere risarcita la perdita del rapporto affettivo. Per la Cassazione il rapporto familiare va oltre la condivisione del tetto
22/12/2016
Una donna anziana decede in seguito a un incidente stradale, privando il nucleo familiare della sua presenza e dell’amorevole condivisione di vita, generando così, secondo i canoni del nostro ordinamento, il diritto dei prossimi congiunti al risarcimento del danno definito da “lesione o privazione del rapporto parentale”.
Un tema che si pone spesso, in questo genere di controversie, è quello legato alla legittimazione attiva dei danneggiati, in ordine ai criteri con i quali identificare quali componenti del nucleo familiare abbiano diritto a chiedere tale danno da rottura del legame affettivo.
Certamente la giurisprudenza ritiene, in via di presunzione quasi assoluta, che i componenti del nucleo familiare primario (genitori, figli e fratelli) abbiano una legittimazione a chiedere questo danno, ritenendo che sicuramente la lesione determini una sofferenza soggettiva tale da generare l’obbligo di ristoro del danno (le tabelle di Milano, unico criterio risarcitorio nazionale, lo danno per assunto come elemento di legittimazione).
Più controversa invece è la questione legata alla legittimazione attiva di componenti del nucleo non primario della famiglia, a cominciare proprio (come nella vicenda che illustriamo) dai nonni e dai nipoti.
Ci si chiede, infatti, se soggetti che normalmente non abbiano una condivisione di vita quotidiana o continuativa abbiano tale legittimazione, ovvero se il criterio della convivenza stabile sia elemento discriminante per delimitare il diritto ad agire per il danno da lesione del rapporto parentale.
Un duplice orientamento da risolvere
Storicamente, si scontrano due orientamenti: uno (riferibile, al più alto livello, alla sentenza della Cassazione n. 4253 del 16.3.2012) ritiene determinante lo stato di convivenza per ritenere sussistente il diritto da rottura di tale rapporto parentale, escludendo spesso quindi la legittimazione nel rapporto nonni/nipoti; l’altro (riferibile ad altra giurisprudenza della stessa Cassazione, una fra tutti la n. 15019 del 15.7.2005) di segno opposto, esclude che il criterio della convivenza sia determinante per stabilire a posteriori la legittimazione attiva al danno. Una bella e recentissima decisione della suprema Corte (n. 21230 del 20.10.2016, sez. III, Pres. Spirito, Rel. Scrima) pare mettere un punto chiaro e definitivo alla questione.
Il ricorso nasce da una vicenda in cui la Corte di Appello di Roma aveva confermato la decisione del tribunale capitolino, il quale aveva negato il ristoro del danno per la perdita della nonna in capo ai suoi nipoti sul presupposto che, richiamandosi al principio affermato da Cass. 4253/2012, le nipoti non erano conviventi con la vittima, e che non sarebbe risultata provata “l’effettiva sussistenza di una frequentazione assidua con la defunta nonna, né tanto meno che tra le stesse e quest’ultima esistesse una relazione nell’ambito del contesto familiare o, quanto meno un concreto valido e reale supporto morale”.
La convivenza non è tutto
La Corte di Cassazione, nella decisione n. 21230/2016 in commento, censura il ragionamento della corte di merito, rilevando che se è innegabile che, come pure si evince dalla sentenza del 2012, occorre conciliare il diritto del superstite alla tutela del rapporto parentale “con l’esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari”, tuttavia “il dato esterno ed oggettivo della convivenza” non può divenire elemento idoneo “a bilanciare” le evidenziate contrapposte esigenze.
Pertanto, nell’ambito del danno non patrimoniale per la morte di un congiunto, il rapporto fra nonni e nipoti non deve essere ancorato alla convivenza per essere giuridicamente qualificato e rilevante, con esclusione nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
Se dunque la convivenza non può assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, ovvero a presupposto dell’esistenza del diritto in parola, la stessa costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare anche il quantum debeatur.
Un legame affettivo da dimostrare
Rammenta poi la Corte il richiamo al criterio empirico di accertamento del danno che deve sempre essere presente in ogni interprete: “Va da sé che ad evitare quanto già paventato da questa Corte (dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari e possibilità di prove compiacenti) è sufficiente che sia fornita la prova rigorosa degli elementi idonei a provare la lamentata lesione e l’entità dei danni (v. Cass. 22/10/2013, n. 23917; Cass. 21/01/2011, n. 1410) e che tale prova sia correttamente valutata dal giudice”.
È questo il richiamo più chiaro e solutorio della questione e di ogni argomentazione legata alla insorgenza del diritto al ristoro del danno per la sofferenza dovuta alla violenta privazione di un parente caro: non un astratto e meccanico criterio di convivenza familiare (che nemmeno può essere garanzia di affettività), bensì la prova (che deve essere fornita dal danneggiato stesso) di una preesistente affettività familiare realizzatasi attraverso non tanto la quantità del rapporto, bensì con la prova della qualità del legame affettivo improvvisamente e ingiustamente rotto dalla azione illecita del responsabile.
Un tema che si pone spesso, in questo genere di controversie, è quello legato alla legittimazione attiva dei danneggiati, in ordine ai criteri con i quali identificare quali componenti del nucleo familiare abbiano diritto a chiedere tale danno da rottura del legame affettivo.
Certamente la giurisprudenza ritiene, in via di presunzione quasi assoluta, che i componenti del nucleo familiare primario (genitori, figli e fratelli) abbiano una legittimazione a chiedere questo danno, ritenendo che sicuramente la lesione determini una sofferenza soggettiva tale da generare l’obbligo di ristoro del danno (le tabelle di Milano, unico criterio risarcitorio nazionale, lo danno per assunto come elemento di legittimazione).
Più controversa invece è la questione legata alla legittimazione attiva di componenti del nucleo non primario della famiglia, a cominciare proprio (come nella vicenda che illustriamo) dai nonni e dai nipoti.
Ci si chiede, infatti, se soggetti che normalmente non abbiano una condivisione di vita quotidiana o continuativa abbiano tale legittimazione, ovvero se il criterio della convivenza stabile sia elemento discriminante per delimitare il diritto ad agire per il danno da lesione del rapporto parentale.
Un duplice orientamento da risolvere
Storicamente, si scontrano due orientamenti: uno (riferibile, al più alto livello, alla sentenza della Cassazione n. 4253 del 16.3.2012) ritiene determinante lo stato di convivenza per ritenere sussistente il diritto da rottura di tale rapporto parentale, escludendo spesso quindi la legittimazione nel rapporto nonni/nipoti; l’altro (riferibile ad altra giurisprudenza della stessa Cassazione, una fra tutti la n. 15019 del 15.7.2005) di segno opposto, esclude che il criterio della convivenza sia determinante per stabilire a posteriori la legittimazione attiva al danno. Una bella e recentissima decisione della suprema Corte (n. 21230 del 20.10.2016, sez. III, Pres. Spirito, Rel. Scrima) pare mettere un punto chiaro e definitivo alla questione.
Il ricorso nasce da una vicenda in cui la Corte di Appello di Roma aveva confermato la decisione del tribunale capitolino, il quale aveva negato il ristoro del danno per la perdita della nonna in capo ai suoi nipoti sul presupposto che, richiamandosi al principio affermato da Cass. 4253/2012, le nipoti non erano conviventi con la vittima, e che non sarebbe risultata provata “l’effettiva sussistenza di una frequentazione assidua con la defunta nonna, né tanto meno che tra le stesse e quest’ultima esistesse una relazione nell’ambito del contesto familiare o, quanto meno un concreto valido e reale supporto morale”.
La convivenza non è tutto
La Corte di Cassazione, nella decisione n. 21230/2016 in commento, censura il ragionamento della corte di merito, rilevando che se è innegabile che, come pure si evince dalla sentenza del 2012, occorre conciliare il diritto del superstite alla tutela del rapporto parentale “con l’esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari”, tuttavia “il dato esterno ed oggettivo della convivenza” non può divenire elemento idoneo “a bilanciare” le evidenziate contrapposte esigenze.
Pertanto, nell’ambito del danno non patrimoniale per la morte di un congiunto, il rapporto fra nonni e nipoti non deve essere ancorato alla convivenza per essere giuridicamente qualificato e rilevante, con esclusione nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
Se dunque la convivenza non può assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, ovvero a presupposto dell’esistenza del diritto in parola, la stessa costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare anche il quantum debeatur.
Un legame affettivo da dimostrare
Rammenta poi la Corte il richiamo al criterio empirico di accertamento del danno che deve sempre essere presente in ogni interprete: “Va da sé che ad evitare quanto già paventato da questa Corte (dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari e possibilità di prove compiacenti) è sufficiente che sia fornita la prova rigorosa degli elementi idonei a provare la lamentata lesione e l’entità dei danni (v. Cass. 22/10/2013, n. 23917; Cass. 21/01/2011, n. 1410) e che tale prova sia correttamente valutata dal giudice”.
È questo il richiamo più chiaro e solutorio della questione e di ogni argomentazione legata alla insorgenza del diritto al ristoro del danno per la sofferenza dovuta alla violenta privazione di un parente caro: non un astratto e meccanico criterio di convivenza familiare (che nemmeno può essere garanzia di affettività), bensì la prova (che deve essere fornita dal danneggiato stesso) di una preesistente affettività familiare realizzatasi attraverso non tanto la quantità del rapporto, bensì con la prova della qualità del legame affettivo improvvisamente e ingiustamente rotto dalla azione illecita del responsabile.
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