Danno punitivo: i riflessi per le coperture assicurative
L’importazione in Italia dell’istituto dei “punitive damages” mira ad aumentare negli avvocati la consapevolezza nell’affrontare una lite che potrebbe essere definita “temeraria”. Dall’altra parte, la piena aderenza alla forma statunitense potrebbe avere un impatto pericoloso rispetto alla Rc del professionista
13/12/2018
Sembra che ci sia un trend giurisprudenziale italiano affascinato dai cosiddetti punitive damages anglosassoni. Ma è condivisibile? Andiamo con ordine. Una recente ordinanza della Suprema Corte (ord. n. 15209 del 12 giugno 2018 emessa dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione) apre il dibattito sull’abuso del processo accentuando la funzione punitiva della lite temeraria, con inevitabili impatti non solo in ambito di responsabilità professionale per gli avvocati, ma con argomentazioni che possano riflettersi a tutto il mondo della responsabilità civile.
La Cassazione ha stabilito che può costituire abuso del diritto, sanzionabile ex art. 96 C.p.c., la proposizione di un ricorso per cassazione basato su “motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, privo di autosufficienza o contenente una mera richiesta di rivalutazione nel merito”. Nel caso di specie il ricorrente (un avvocato nel caso di specie) è stato condannato al pagamento di una somma equitativamente determinata pari a 3.000 euro.
L’argomento era stato in parte già affrontato dagli Ermellini, in relazione alla questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria, al fine sia di contenere il fenomeno dell’abuso del processo, sia di dare spazio alla fattispecie dei danni punitivi. In quel caso avevano affermato che “la condanna ex art. 96 C.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma e indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 C.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente” (Cass. civ. sent. n. 27623/2017).
Un istituto con funzione deterrente
In particolare la Cassazione ha basato la condanna sul principio già espresso con la nota sentenza della Cassazione a sezioni unite 16601/2017 in cui si riteneva che “non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi, e ancora: “nella motivazione della sentenza richiamata, l’art. 96 C.p.c., u.c. è stato inserito nell’elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza” (così, Cass. civ. ord. n. 15209/2018).
La questione pone sulla bilancia interessi contrapposti. Da una parte la giustizia, preoccupata di assicurare un “corretto impiego delle risorse per il buon andamento della giurisdizione” e “garantire l’accesso alla giustizia e alla tutela dei diritti”, unito al dovere di “tenere in conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo”. Dall’altra le ragioni di avvocati e clienti, che rivendicano il diritto a poter usufruire della stessa giustizia nei casi in cui lo ritengano opportuno, non volendo esser privati dell’accesso al più alto grado di giurisdizione per motivi e problematiche a essi estranee, quali, in primis, il sovraccarico giudiziario tanto richiamato dalla Corte.
Affidarsi alla ragionevolezza
Quest’ultima, nel provvedimento in esame, ha riferito di un ricorso “non già finalizzato alla tutela dei diritti”, affermando che “il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni e ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti”.
Agli avvocati in questo caso spetterebbe una funzione quasi pubblicistica: una valutazione preventiva di ragionevolezza rispetto alle azioni che andrebbero a promuovere in favore del cliente per assicurargli la più corretta e adeguata difesa, fin quando i gradi della giustizia glielo permettano.
Il confine tra abuso dello strumento impugnativo e difesa dei diritti del proprio cliente è molto labile, e questo orientamento della Cassazione potrebbe andare ad alleggerire il peso della mole delle cause giudiziarie, ma, allo stesso tempo, modificherebbe il rapporto cliente-avvocato in modo netto, dal momento che il professionista oltre a decidere il come agire, dovrebbe prima decidere il se farlo o meno, visto che non dovrebbe più solo guardarsi dalla sola possibilità di un rigetto.
Il rischio risarcimento
Tutto quanto sopra premesso, ad avviso di chi scrive, se può essere condivisibile l’imposizione di un comportamento processuale corretto delle parti (e dei loro difensori), in realtà il riferimento alla sentenza n. 16607/2017 inerente i punitive damages (statunitensi in quel caso), rischia di aprire le porte a straordinari risarcimenti non previsti e disciplinati dal nostro ordinamento (con conseguente incertezza anche sotto il profilo assicurativo). In poche parole: la condanna della lite temeraria è certamente da vedersi con favore, ma non ancorata a riferimenti ad ordinamenti stranieri.
Ciò potrebbe facilmente esporre i professionisti al risarcimento per responsabilità professionale in conseguenza delle condanne dei propri clienti che si rivarrebbero su di loro, aspetto che non discende dall’interpretazione della Suprema Corte, bensì da quel dovere di lealtà e probità dell’art. 88 C.p.c., comportando un ennesimo aggravio ai doveri e alle responsabilità del difensore. In tal caso il professionista dovrà contemperare gli interessi della parte assistita con quelli del sistema giudiziario, ovvero della collettività, dovendo considerare l’interesse individuale come recessivo rispetto a quello collettivo del buon andamento della macchina giudiziaria.
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