L’azione del giudice sui contratti
Seconda parte - In questa seconda parte dell’articolo sul tema degli ambiti di incertezza nei contratti assicurativi che diventano temi di giurisprudenza, si trattano le questioni della dipendenza economica tra imprese e delle clausole claims made
10/01/2020
Il tema di dipendenza economica di un’impresa nei confronti di un’altra è stato molto dibattuto in relazione al fenomeno della subfornitura, rientrante nel cosiddetto outsoucing (decentramento produttivo) con un’impresa che rinuncia a occuparsi di tutte le fasi del processo produttivo affidando l’esecuzione di alcune di esse a soggetti esterni.
L’articolo 9 della legge 192/1998, intitolata Disciplina della subfornitura nelle attività produttive, ha introdotto l’istituto dell’abuso di dipendenza economica.
Per dipendenza economica deve intendersi una situazione di soggezione economica di un’impresa a un’altra, in un contesto in cui il gioco della domanda e dell’offerta risulta, per la prima, decisamente ridotto o del tutto escluso.
L’esistenza di una situazione di dipendenza economica non fa, tuttavia, scattare il divieto di cui all’articolo 9: occorre che di questa situazione l’impresa forte ne faccia abuso. Il legislatore non spiega cosa debba intendersi per abuso, limitandosi, al 2° comma della norma, a specificare che l’abuso può consistere anche: a) nel rifiuto di vendere o di comprare; b) nella imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente gravose o discriminatorie; c) nella interruzione arbitraria delle relazioni contrattuali in atto.
Orbene, accertata la situazione de qua, il rimedio che ha a disposizione il contraente debole è previsto dal 3° comma dell’art. 9 cit., in forza del quale “il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economico è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento”.
Quanto all’ambito di applicazione dell’istituto dell’abuso di dipendenza economica, esso è stato esteso a tutte le ipotesi in cui sia riscontrabile un’asimmetria del potere contrattuale nei rapporti tra imprese.
Infatti, è frequente in giurisprudenza l’affermazione secondo cui “l’istituto dell’abuso di dipendenza economica, (…) pur se costituisce parte integrante della legge in materia di subfornitura, deve considerarsi per sua natura di applicazione generalizzata a tutti i rapporti contrattuali tra imprese aventi natura commerciale” e che, come hanno ormai sugellato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, “l’abuso di dipendenza economica, disciplinato nel contesto della legge sulla subfornitura nelle attività produttive, è fattispecie di applicazione generale, come tale invocabile in ogni rapporto contrattuale nel quale sia ravvisabile un significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti” (Cass. civ., sez. un., 25 novembre 2011, n. 24906).
Qualche esempio sul contratto assicurativo
Nell’ambito dei contratti assicurativi, occorre evidenziare la sentenza delle Ss.Uu. n. 22437/2018 in tema di validità delle polizze in regime di claims made, già oggetto di attento esame su questo giornale da parte di Maurizio Hazan.
In tale ultima pronuncia, la Suprema Corte ha riconosciuto tipicità legale a tale schema negoziale, con conseguente impossibilità di poterne continuare a valutare la “meritevolezza degli interessi” ai sensi dell’art. 1322, comma 2, C.C.. La decisione in commento, infatti, sposta il fulcro del controllo del giudice, il quale adesso deve valutare “come la libera determinazione del contenuto contrattuale, tramite la scelta del modello claims made, rispetti, anzitutto, i limiti imposti dalla legge, che il comma 1 dell’art. 1322 C.C. postula per ogni intervento conformativo sul contratto inerente al tipo, in ragione del suo farsi concreto regolamento dell’assetto di interessi perseguiti dai paciscenti, secondo quella che suole definirsi causa in concreto del negozio”. In sintesi, le Ss.Uu. hanno delineato uno spazio entro il quale la legittimità delle clausole in esame può ancora essere oggetto di vaglio giudiziale, ossia il complessivo ordinamento giuridico.
Non si tratta, dice la Corte, di “sindacare l’equilibrio economico delle prestazioni, che è profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale”, ma di “indagare, con la lente del principio di buona fede contrattuale, se lo scopo pratico del regolamento negoziale on claims made basis presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, giacché, nel contratto di assicurazioni contro i danni, la corrispettività si fonda in base ad una relazione oggettiva e coerente con il rischio assicurato, attraverso criteri di calcolo attuariale”.
Se si accerta uno iato tra il regolamento contrattuale e la disciplina legale, alla luce, soprattutto (ma non solo), dell’indagine sull’equilibrio sinallagmatico anzidetto, dovrà essere dichiarata la nullità della pattuizione contrattuale e la sostituzione della stessa.
Questa nuova indagine sulla “causa in concreto” del negozio dovrà essere svolta, proseguono le Sezioni Unite, “a più ampio spettro, che non si arresti alla sola conformazione genetica del contratto assicurativo, ma ne investa anche il momento precedente alla sua conclusione e quello relativo all’attuazione del rapporto”.
Per ciascuna di queste fasi, poi, diversa è la tutela rimediale.
Come incide l'obbligo di trasparenza
Relativamente alla prima fase, andranno tenuti presente gli obblighi, derivanti dal principio di buona fede in materia di trasparenza e informativa alla clientela, ex artt. 1175 e 1375 C.C., nonché ex art. 2 Cost. (gli obblighi informativi sul contenuto del contratto secondo il modello della claims made “devono essere assolti dall’impresa assicurativa o dai suoi intermediari in modo trasparente e mirato alla tutela effettiva dell’altro contraente, nell’ottica di far conseguire all’assicurato una copertura assicurativa il più possibile aderente alle sue esigenze”).
La violazione di tali obblighi, specificano le Ss.Uu., può dar luogo a responsabilità risarcitoria ex artt. 1337 e 1338 C.C., se non persino all’annullabilità per dolo incidentale ex art. 1440 C.C. Il rimedio risarcitorio al quale potrà aspirare il contraente pregiudicato “dovrà essere in grado di far conseguire a esso un effettivo ristoro del danno patito, commisurabile all’entità delle utilità che avrebbe potuto ottenere in base al contratto correttamente concluso”.
L’analisi del regolamento contrattuale nella sua fase statica, dovrà essere condotta dal giudice valutando, alla luce del principio di buona fede contrattuale, l’adeguatezza del prodotto assicurativo rispetto agli interessi e alle esigenze del contraente.
Valutare, dunque, tenendo conto delle circostanze del caso concreto la cosiddetta causa concreta del contratto, “ossia quella che ne rappresenta lo scopo pratico, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso negozio è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato” (per tutte, Cass. Civ. n. 10490/2006).
Indagine che spazia dalla “verifica di sussistenza della stessa (ossia della adeguatezza rispetto agli interessi coinvolti) a quella di liceità (intesa come lesione di interessi delle parti tutelati dall’ordinamento)”.
I rischi della nullità del contratto
Per capire se è stata realizzata la funzione pratica del contratto, prosegue la Corte, occorre analizzare l’assetto sinallagmatico del contratto assicurativo e capire se “esso presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio”.
In caso affermativo, l’interprete dovrà dichiarare la nullità, totale o parziale, del contratto ai sensi degli artt. 1418 o 1419 C.C.. Il giudice, infatti, “per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto”, potrà porre rimedio alla nullità totale “in forza della norma di cui al secondo comma dell’art. 1419 c.c., così da integrare lo statuto negoziale (non già tramite il modello della c.d. loss occurence di cui all’art. 19187, comma 1, c.c., bensì) attingendo quanto necessario per ripristinare in modo coerente l’equilibro dell’assetto vulnerato dalle indicazioni reperibili dalla stessa regolamentazione legislativa”.
Va da sé che l’indagine sulla causa in concreto da parte del giudice rappresenta, come ha ben evidenziato Natalino Irti nel suo libro Un diritto incalcolabile, un grimaldello per poter dichiarare la nullità della clausola e sostituirla con una più equa e che risponda alle esigenze dell’assicurato.
Ma c’è di più.
Come ha scritto il giudice Marco Rossetti in un articolo sulla rivista Assicurazioni, la sentenza in parola “schiude nuovi e ampi spazi al controllo del giudice di merito sulla liceità non solo di quel patto nel caso concreto ma di ogni patto atipico contenuto in un contratto di assicurazione”.
Si può concludere, dunque, che la pronuncia che ci occupa è destinata a estendere il suo impatto su ogni tipo di polizza.
Gli assicuratori sono consapevoli di questo rischio? Noi pensiamo proprio di no.
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