Pensioni e assistenza: a che punto siamo?
In quest’ultima campagna elettorale la maggior parte delle forze politiche ha concentrato buona parte della propria attività propagandistica sul tema “sempreverde” delle pensioni, che come ogni anno può contare sul vivo interesse di una grandissima platea di potenziali elettori, come gli oltre sedici milioni di pensionati italiani o, ancora, tutti coloro i quali si stanno affacciando alla tanto agognata quiescenza.
E così, i partiti e i movimenti politici in competizione hanno recentemente annunciato proposte di riforma spesso generose o volte a modificare gli equilibri del sistema pubblico di sicurezza sociale, come ad esempio: l’abolizione/”superamento” della c.d. riforma Fornero; l’innalzamento delle pensioni minime; (o, viceversa) l’introduzione di un tetto massimo per gli assegni pensionistici; il riconoscimento di ulteriori contributi figurativi a sostegno dei disoccupati; l’introduzione di altre forme di sostegno come il reddito di cittadinanza o di dignità, ecc.
Dinanzi a tante e tali proposte risulta quantomeno necessario fare un po’ di luce sullo stato di salute del sistema previdenziale italiano, anche al fine di apprezzare la bontà delle idee messe in campo durante quest’ultima campagna elettorale.
Un certo supporto è stato fornito proprio in questi giorni dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali che, col suo annuale “Rapporto sul bilancio del Sistema Previdenziale italiano” (siamo alla quinta pubblicazione), ha messo nero su bianco gli ultimi numeri disponibili sugli andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza del nostro Paese.
Un dato interessante emerso dal Rapporto è quello relativo alla spesa per le pensioni di natura previdenziale del 2016 che, grazie all’aumento dei contributi versati ed alla stabilizzazione effettuata dalle ultime riforme, ha ridotto il proprio saldo negativo di circa 4,56 miliardi di euro rispetto all’anno precedente.
Ma non solo. Nel 2016 si è registrata una sensibile diminuzione del numero dei pensionati ed un positivo aggiustamento del rapporto fra occupati e pensionati (1,417 attivi per pensionato) che fa ben sperare sulla tenuta del nostro sistema pensionistico basato sullo schema della “ripartizione”.
Attenzione però, questi numeri si riferiscono ai trattamenti previdenziali e non a quel genere più ampio di “pensioni” in cui – soprattutto durante la bagarre elettorale – si è soliti far ricadere anche quell’innumerevole serie di prestazioni di natura assistenziale che poco hanno a che vedere con la rendita che l’Inps ci verserà a fronte dei contributi versati nel corso della nostra vita lavorativa (solo questa dovrebbe definirsi pensione, mentre ogni prestazione avulsa da questo sistema e non assistita da effettiva contribuzione, per mera semplificazione, dovrebbe definirsi “assistenza").
Alla luce di questa basilare distinzione, il Rapporto ci illustra come non siano le pensioni a fare paura in termini di sostenibilità, ma l’impatto delle prestazioni di assistenza, propriamente definite tali o impropriamente chiamate come poste pensionistiche.
I numeri che desterebbero più preoccupazione sono infatti quelli relativi alla spesa per l’assistenza. Secondo gli studi emersi nel Rapporto, nel 2016 si sono registrate 4,1 milioni di prestazioni di natura interamente assistenziale (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, di guerra) e altre 5,3 milioni di pensioni che beneficiano di una o più quote parti assistenziali all’interno della pensione stessa (come le “integrazioni al minimo”, le “maggiorazioni sociali”, la “quattordicesima” o l’“importo aggiuntivo”). Il tutto per un costo complessivo di circa 33 miliardi di euro a carico della fiscalità generale, dato che – come evidenziato nel Rapporto - per quasi tutte queste prestazioni non sarebbe stato versato alcun contributo o sarebbero state versate contribuzioni molto modeste e per pochi anni.
La domanda sorge quindi spontanea: il sistema così strutturato è davvero sostenibile? I dubbi sono più che legittimi, soprattutto se si consideri che – secondo i conti riportati nel Rapporto – per finanziare la spesa complessiva per il welfare (in cui vi rientra la spesa assistenziale) relativa all’anno fiscale 2015 sarebbero occorsi tutti i contributi, le imposte dirette ed una piccola parte di quanto raccolto con l’Iva.
A ciò deve aggiungersi come, stando alle dichiarazioni fiscali del 2015 esaminate dal Centro Studi Itinerari Previdenziali, quasi la metà dei circa 60 milioni di italiani non produrrebbe reddito, dato che sui 40,77 milioni di dichiaranti solo 30,9 hanno presentato una dichiarazione dei redditi positiva.
Ecco dunque che, dinanzi a questi numeri (incoraggianti per la previdenza e meno positivi per il settore assistenziale), le forze politiche impegnate nella campagna elettorale dovrebbero forse rivedere un attimo le loro priorità, affinché il sistema pubblico di protezione sociale risulti meno vulnerabile e possa così far fronte in maniera efficiente alle esigenze previdenziali ed assistenziali della popolazione.
Secondo quanto indicato nel Rapporto, risulterebbe evidentemente fondamentale razionalizzare la spesa assistenziale separandola da quella previdenziale, monitorandola attraverso il “casellario centrale dell’assistenza” e controllandone adeguatamente le erogazioni.
A ciò dovrebbe poi seguire un maggior controllo sull’evasione/elusione fiscale e contributiva la cui attuazione, purtroppo, non trova alcun consenso in una buona fetta degli elettori o di certi “supporter” della politica.
E così, i partiti e i movimenti politici in competizione hanno recentemente annunciato proposte di riforma spesso generose o volte a modificare gli equilibri del sistema pubblico di sicurezza sociale, come ad esempio: l’abolizione/”superamento” della c.d. riforma Fornero; l’innalzamento delle pensioni minime; (o, viceversa) l’introduzione di un tetto massimo per gli assegni pensionistici; il riconoscimento di ulteriori contributi figurativi a sostegno dei disoccupati; l’introduzione di altre forme di sostegno come il reddito di cittadinanza o di dignità, ecc.
Dinanzi a tante e tali proposte risulta quantomeno necessario fare un po’ di luce sullo stato di salute del sistema previdenziale italiano, anche al fine di apprezzare la bontà delle idee messe in campo durante quest’ultima campagna elettorale.
Un certo supporto è stato fornito proprio in questi giorni dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali che, col suo annuale “Rapporto sul bilancio del Sistema Previdenziale italiano” (siamo alla quinta pubblicazione), ha messo nero su bianco gli ultimi numeri disponibili sugli andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza del nostro Paese.
Un dato interessante emerso dal Rapporto è quello relativo alla spesa per le pensioni di natura previdenziale del 2016 che, grazie all’aumento dei contributi versati ed alla stabilizzazione effettuata dalle ultime riforme, ha ridotto il proprio saldo negativo di circa 4,56 miliardi di euro rispetto all’anno precedente.
Ma non solo. Nel 2016 si è registrata una sensibile diminuzione del numero dei pensionati ed un positivo aggiustamento del rapporto fra occupati e pensionati (1,417 attivi per pensionato) che fa ben sperare sulla tenuta del nostro sistema pensionistico basato sullo schema della “ripartizione”.
Attenzione però, questi numeri si riferiscono ai trattamenti previdenziali e non a quel genere più ampio di “pensioni” in cui – soprattutto durante la bagarre elettorale – si è soliti far ricadere anche quell’innumerevole serie di prestazioni di natura assistenziale che poco hanno a che vedere con la rendita che l’Inps ci verserà a fronte dei contributi versati nel corso della nostra vita lavorativa (solo questa dovrebbe definirsi pensione, mentre ogni prestazione avulsa da questo sistema e non assistita da effettiva contribuzione, per mera semplificazione, dovrebbe definirsi “assistenza").
Alla luce di questa basilare distinzione, il Rapporto ci illustra come non siano le pensioni a fare paura in termini di sostenibilità, ma l’impatto delle prestazioni di assistenza, propriamente definite tali o impropriamente chiamate come poste pensionistiche.
I numeri che desterebbero più preoccupazione sono infatti quelli relativi alla spesa per l’assistenza. Secondo gli studi emersi nel Rapporto, nel 2016 si sono registrate 4,1 milioni di prestazioni di natura interamente assistenziale (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, di guerra) e altre 5,3 milioni di pensioni che beneficiano di una o più quote parti assistenziali all’interno della pensione stessa (come le “integrazioni al minimo”, le “maggiorazioni sociali”, la “quattordicesima” o l’“importo aggiuntivo”). Il tutto per un costo complessivo di circa 33 miliardi di euro a carico della fiscalità generale, dato che – come evidenziato nel Rapporto - per quasi tutte queste prestazioni non sarebbe stato versato alcun contributo o sarebbero state versate contribuzioni molto modeste e per pochi anni.
La domanda sorge quindi spontanea: il sistema così strutturato è davvero sostenibile? I dubbi sono più che legittimi, soprattutto se si consideri che – secondo i conti riportati nel Rapporto – per finanziare la spesa complessiva per il welfare (in cui vi rientra la spesa assistenziale) relativa all’anno fiscale 2015 sarebbero occorsi tutti i contributi, le imposte dirette ed una piccola parte di quanto raccolto con l’Iva.
A ciò deve aggiungersi come, stando alle dichiarazioni fiscali del 2015 esaminate dal Centro Studi Itinerari Previdenziali, quasi la metà dei circa 60 milioni di italiani non produrrebbe reddito, dato che sui 40,77 milioni di dichiaranti solo 30,9 hanno presentato una dichiarazione dei redditi positiva.
Ecco dunque che, dinanzi a questi numeri (incoraggianti per la previdenza e meno positivi per il settore assistenziale), le forze politiche impegnate nella campagna elettorale dovrebbero forse rivedere un attimo le loro priorità, affinché il sistema pubblico di protezione sociale risulti meno vulnerabile e possa così far fronte in maniera efficiente alle esigenze previdenziali ed assistenziali della popolazione.
Secondo quanto indicato nel Rapporto, risulterebbe evidentemente fondamentale razionalizzare la spesa assistenziale separandola da quella previdenziale, monitorandola attraverso il “casellario centrale dell’assistenza” e controllandone adeguatamente le erogazioni.
A ciò dovrebbe poi seguire un maggior controllo sull’evasione/elusione fiscale e contributiva la cui attuazione, purtroppo, non trova alcun consenso in una buona fetta degli elettori o di certi “supporter” della politica.
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