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Dentro le alte mura dell'ospedale

Quaranta viaggi nel più rappresentativo dei non-luoghi contemporanei

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C'è grande dignità nelle storie raccontate dai pazienti, vittime, è il caso di dirlo, di un sistema degradato quanto tentacolare. Dalle quaranta storie raccolte e presentate da Giovanni Cannavò, medico legale e presidente dell'associazione medico-giuridica Melchiorre Gioia, nel suo nuovo libro Speriamo che io me la cavo in ospedale!, Maggioli Editore, traspare quasi sempre una totale impotenza del paziente di fronte a un sistema sanitario dal quale non si può sfuggire, perché spinti dalla necessità, e alle cui inefficienze è impossibile sottrarsi. Dai disservizi di una Asl fatiscente, alla mancanza di posti letto in ospedale, passando per la logica inesperienza degli specializzandi e giungendo ai macchinari obsoleti, l'esperienza medica, spesso terribile e con un finale straziante, è raccontata dai pazienti, o dai familiari, senza particolare rabbia o rancore. Nei racconti prevale perlopiù il dolore, misto all'incredulità rispetto al viaggio senza speranza che hanno compiuto. I medici, il più delle volte vissuti come antagonisti oscuri, sembrano personaggi sfuggenti, forse distratti, super impegnati e in qualche caso oggettivamente mancanti. Ma anche loro, che dovrebbero essere i punti fermi della sanità, si trovano invischiati in una melassa confusa di inefficienze.

La scelta di Cannavò di riportare sostanzialmente senza editing le testimonianze di chi si è rivolto al medico legale e all'avocato per avere giustizia (o quantomeno un ascolto) restituisce un senso di verità netto e senza edulcorazioni. L'insieme dei racconti, visti nella loro umanità profonda, ha qualcosa di epico e grandioso. Come spesso accade nell'epica, tutto parte da una maternità. La prima storia è cruda e terribile e racconta la nascita di un figlio che per una serie di errori medici resterà invalido fisicamente e mentalmente a vita. Il punto di vista è della madre, ma mai, nel discorso della storia, la narrazione cede alla disordinata disperazione. Tutte le storie sono accomunate da un certo rigore, anche quelle scritte in modo sgrammaticato da persone culturalmente poco dotate. Questo perché lo scopo è riuscire a dare più informazioni possibili riguardo il decorso infausto del caso, così da raggiungere, o almeno provarci, una cristallina verità.

Sebbene il quadro dipinto da queste storie, alcune totalmente tragiche, altre di cui sarebbe interessante conoscerne l'esito, raffiguri una sanità sempre più incontrollabile e declinante, il libro è privo di retorica contro la cosiddetta malasanità": niente di tutto questo. Cannavò non strizza l'occhio al paziente, e non cerca la populistica gogna mediatica. L'autore è poco più che un testimone che, attraverso la secca oggettività (ma umanamente soggettiva) delle persone, ci restituisce un sistema in cui i colpevoli sono sfuggenti, le colpe spesso indefinibili e l'ospedale un non-luogo troppo a lungo abbandonato alla mala gestio.

Giovanni Cannavò, Speriamo io me la cavo in ospedale!, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2012, pp. 241, 20 euro    

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