Il welfare fondato sul lavoro
05/03/2020
Tra diritto alla pensione e alle cure, sistema a ripartizione o meccanismi che si esprimono in Quota100 e reddito di cittadinanza, l’Italia fa ormai da tempo i conti con la debolezza del proprio sistema di welfare, con le iniquità che genera e con promesse che non può più mantenere.
Stando ai dati del settimo Rapporto previdenziale italiano di Itinerari Previdenziali, il rapporto attivi/pensionati è il migliore degli ultimi 22 anni, con una quota di 1,45, molto vicina a quel valore, 1,5, che potrebbe garantire il livello di sostenibilità del sistema di cui il nostro Paese tanto avrebbe bisogno. Anche il numero di occupati risulta in crescita, con oltre 23 milioni di lavoratori a fine 2018, così come decresce il numero dei pensionati: circa 16 milioni.
Ma a contrastare l’effetto positivo di questa buona notizia, che da sola potrebbe far pensare a una spesa previdenziale sotto controllo, contribuiscono le carenze del sistema assistenziale: 105 miliardi di euro nel 2018, con un tasso di crescita annuo del 4,3%.
Nel complesso, per previdenza, sanità e assistenza si sono spesi, sempre nel 2018, 462 miliardi di euro. Un totale che assorbe, come evidenzia il Rapporto, contributi sociali, Irpef, Ires, Irap, Isos e che non lascia spazio ad altre possibilità di spesa pubblica se non il ricorso a nuovo debito.
Per dare respiro al nostro Paese si parla così di interventi correttivi che, partendo dal necessario superamento di Quota100, puntino a una separazione tra assistenza e previdenza e all’adeguamento del quadro normativo del welfare complementare, per renderlo non solo parte integrante del sistema ma anche fonte di scelte a favore della stabilità e dello sviluppo di entrambi i comparti.
La sfida sarà la ricerca di un equilibrio tra sostenibilità finanziaria, con garanzie di un welfare che abbia gli strumenti adeguati per autofinanziarsi, almeno in parte, e sostenibilità sociale. Il che significa trovare soluzioni che non penalizzino le nuove generazioni, evitando di lasciare loro nuovi debiti da pagare e varie altre penalizzazioni. Ma significa anche fornire risposte a chi ha svolto e svolge lavori gravosi, alle differenze di genere e, attraverso un’anagrafe centralizzata e adeguati controlli, a chi ha davvero bisogno di prestazioni.
Vincere questa sfida, spiegano gli esperti, implica introdurre maggiori forme di “flessibilità”. Ma proprio intorno a questo termine sembrano aggiungersi, per i giovani e meno giovani, altre pesanti incognite che rischiano di tradursi solo in altre forme di precarietà, ben nascoste nella promessa di opportunità. Ecco allora che l’equilibrio richiesto, per poter parlare di un Paese effettivamente basato sul concetto di equità, non può che essere fondato sulla vera scommessa che riguarda il benessere degli italiani e che non può che passare attraverso la capacità di generare occupazione. E concentrarsi su un termine semplice ma prezioso per il suo significato: lavoro.
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