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Greenwashing

È una pratica di marketing ingannevole, in cui un’azienda esagera o afferma falsamente di essere rispettosa dell’ambiente, per attirare consumatori attenti alle problematiche che lo riguardano. Il fenomeno è in grado di minare la fiducia nei mercati e nelle vere politiche di finanza sostenibile, ed è diventato una preoccupazione prevalente nel panorama aziendale odierno

Greenwashing hp_vert_img
Definiamo greenwashing i casi in cui un’affermazione sulla sostenibilità, da parte di un soggetto, contiene informazioni false o capaci di ingannare i consumatori, gli investitori e il mercato in genere. 
In un’era caratterizzata da una sempre maggiore consapevolezza ambientale, i casi di società impegnate in pratiche ingannevoli di questo tipo, nel tentativo di rafforzare la propria immagine, sono purtroppo in aumento. In particolare, nell’ambito del settore finanziario, il greenwashing è costituito dal dire o fare cose che non riflettono in modo chiaro e corretto il profilo di sostenibilità di chi crea, emette o distribuisce prodotti o servizi finanziari (banche, società d’investimento, compagnie assicurative, etc.)
Si tratta, insomma, di una pratica fuorviante per i consumatori, attuata dal responsabile del prodotto o servizio, da chi offre consulenza o informazioni sui medesimi, oppure da terze parti, come ad esempio le agenzie che certificano la sostenibilità.
In altre parole, dunque, il greenwashing è una pratica di marketing ingannevole, in cui un’azienda esagera o afferma falsamente di essere rispettosa dell’ambiente, per attirare consumatori attenti alle problematiche che lo riguardano. Il termine combina la parola green (verde), associata all’ambientalismo e alla sostenibilità, con washing (insabbiamento), che implica un tentativo di nascondere la vera natura di una situazione. 
Com’è intuibile, tenere in considerazione i cosiddetti fattori Esg (Environment, social governance) significa indirizzare capitali e risparmi, cioè gli investimenti, verso imprese e progetti sostenibili, cioè rispettosi dell’ambiente, oppure verso attività impegnate socialmente e quindi volte all’inclusione e al benessere dei lavoratori, come quelle che favoriscono la presenza di donne negli organi di amministrazione, ad esempio. Parliamo insomma di finanza sostenibile.
Ma quando investiamo in azioni e obbligazioni di imprese sostenibili o in titoli che finanziano progetti ambientali o sociali (come le cosiddette obbligazioni verdi), possiamo incappare in casi di greenwashing: l’impresa titolare o i progetti da finanziare ci vengono presentati come più sostenibili di quanto siano in realtà. 

Esempi di greenwashing in ambito finanziario

Le European Supervisory Authorities (Esa) avvertono che l’inganno del greenwashing si realizza per mezzo di falsità e omissioni, ovvero con affermazioni fuorvianti che possono essere trasmesse attraverso vari canali, come materiali di marketing, rapporti, etichette e certificazioni di sostenibilità, siti web, social media, influencer, etc. 
Per quanto attiene alle banche, ad esempio, l’European Banking Authority (Eba), che fa parte delle Esa, ha fornito un lungo elenco di casi di presunto greenwashing:

  • affermare di contribuire alla riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica, ma prestare denaro a società che costruiscono centrali elettriche a carbone;
  • affermare di contribuire alla lotta contro la deforestazione, ma investire in una società che si presume legata alla deforestazione dell’Amazzonia;
  • impegnarsi pubblicamente a ridurre le emissioni di anidride carbonica connesse alle proprie attività di investimento e finanziamento, ma dotarsi di un piano non credibile;
  • comunicare sui propri sforzi contro il cambiamento climatico, ma omettere informazioni sul proprio contributo alle emissioni di gas serra;
  • violare la propria politica ambientale e sociale finanziando consapevolmente progetti dal forte impatto negativo sull’ambiente e sulla società;
  • promettere di reprimere la clientela sospetta, ma poi fare affari con persone e società implicate in vari crimini;
  • impegnarsi pubblicamente a essere sostenibile, ma investire in società coinvolte in violazioni dei diritti umani;
  • dichiarare di non aver evaso le tasse, ma poi subire una condanna per evasione fiscale;
  • affermare di avere a cuore il benessere dei dipendenti, ma discriminarli o non tutelarne i diritti; 
  • dire il falso ai clienti sulle caratteristiche, gli obiettivi, la composizione e la portata verde dei prodotti d’investimento;
  • promuovere come sostenibili fondi che investono in aziende con un impatto negativo sull’ambiente e sulla società.


© Sam Forson - Pexels

Le ragioni che spingono verso il greenwashing

A spingere le società finanziarie verso il greenwashing possono essere vari fattori, come la competizione per soddisfare la crescente domanda di prodotti e servizi sostenibili, la carenza di controlli, l’essere sotto la lente dei media e delle organizzazioni non governative, la disponibilità di informazioni limitate sulla propria performance ambientale e, infine, certe carenze a livello etico nel proprio governo societario.
In un modo o nell’altro, comunque, il greenwashing può causare danni ai consumatori e investitori, offrendo un vantaggio ingiusto ai loro concorrenti. Il fenomeno, inoltre, è in grado di minare la fiducia nei mercati e nelle vere politiche di finanza sostenibile.
Questo fenomeno è quindi diventato una preoccupazione prevalente nel panorama aziendale odierno, perché tutte le società cercano di proiettare un’immagine rispettosa dell’ambiente nel loro marketing, in taluni casi oscurando realtà assai meno eco-compatibili di quanto si creda.

La risposta della Commissione Europea: la direttiva (Ue) 2024/825

Per combattere questo fenomeno sempre più diffuso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la direttiva (Ue) 2024/825 del 28 febbraio 2024, sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione.
La norma, ormai nota come direttiva Ecgt, introduce regole specifiche per la tutela dei consumatori, volte a contrastare le pratiche commerciali sleali associate all’obsolescenza precoce dei beni, alle asserzioni ambientali ingannevoli, alle informazioni ingannevoli sulle caratteristiche sociali dei prodotti o delle imprese, ovvero ai marchi di sostenibilità non trasparenti e credibili. 
Lo scopo è promuovere la transizione verde e il corretto funzionamento del mercato interno, assicurando che le imprese forniscano ai consumatori informazioni chiare, pertinenti e affidabili, anche sotto il profilo della sostenibilità.
Questa norma modifica le direttive 2005/29/CE (in materia di pratiche commerciali sleali) e 2011/83/Ue (sui diritti dei consumatori), aggiungendo all’elenco delle pratiche commerciali considerate come sleali le seguenti fattispecie:
  • esibire un marchio di sostenibilità non basato su un sistema di certificazione o stabilito da autorità pubbliche; 
  • formulare un’asserzione ambientale generica per la quale l’operatore economico non è in grado di dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali a essa pertinenti (come “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”, “verde”, “amico della natura”, “ecologico”, “biodegradabile”, etc.); 
  • formulare un’asserzione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso o l’attività dell’operatore economico nel suo complesso, quando la stessa riguarda soltanto un determinato aspetto del prodotto o uno specifico elemento dell’attività dell’operatore economico;
  • asserire ingannevolmente che un prodotto abbia un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente, in termini di emissioni di gas a effetto serra; 
  • presentare requisiti, imposti per legge sul mercato dell’Unione per tutti i prodotti appartenenti a una data categoria, come se fossero un tratto distintivo dell’offerta dell’operatore economico.
La direttiva Ecgt ha inoltre modificato l’articolo 6 della direttiva 2005/29/CE, riguardante le pratiche commerciali ingannevoli, aggiungendo alle caratteristiche principali del prodotto quelle ambientali o aventi valore sul piano sociale e vietando la formulazione di asserzioni ambientali, senza che le aziende includano impegni chiari, oggettivi, pubblicamente disponibili e verificabili, stabiliti in un piano di attuazione dettagliato e realistico. 
La nuova normativa europea è entrata in vigore il ventesimo giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e gli Stati membri avranno tempo sino al 27 marzo 2026 per adottare e pubblicare le misure necessarie per recepirla sul piano nazionale.


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Implicazioni sul piano assicurativo

Come accade anche per altri fenomeni, per il comparto assicurativo il greenwashing è caratterizzato da una doppia valenza. 
Da un lato, è possibile definirlo come una pratica in cui affermazioni, dichiarazioni, azioni o comunicazioni relative alla sostenibilità non riflettano in modo chiaro ed equo il profilo di una compagnia di assicurazione, di una polizza o di un servizio finanziario offerti.
Sotto questo profilo, l’Ivass ha già iniziato a occuparsi della questione, pubblicando nel marzo di quest’anno il rapporto intitolato Analisi delle polizze Ibips con caratteristiche Esg. Lo studio segue l’indagine svolta nel corso del 2023 sulle polizze Ibips (un prodotto appartenente ai rami vita) che presentano caratteristiche di sostenibilità Esg, al fine di verificarne la struttura e le modalità di presentazione al pubblico. L’indagine ha coinvolto 18 compagnie di assicurazione, dalle quali sono state acquisite informazioni legate al tema Esg, permettendo di ottenere un’interessante fotografia di come il mercato italiano si stia muovendo nell’offerta di prodotti sostenibili.
Dall’altra parte, invece, per le compagnie operanti in Italia si pone il problema del rischio associato alle pratiche di greenwashing eventualmente attuate da parte degli assicurati e dei possibili risarcimenti derivanti da tali attività, nell’ambito delle polizze emesse.
Prendiamo il caso noto come Dieselgate della Volkswagen, da molti osservatori indicato come uno dei primi casi di greenwashing venuti alla luce. Ricorderete che, nonostante commercializzasse le proprie auto diesel come rispettose dell’ambiente, l’azienda fu accusata di utilizzare pratiche ingannevoli che determinarono il noto scandalo sulle emissioni del 2015. È dunque possibile che eventuali danni derivanti a terzi da questo evento siano stati risarciti, ad esempio, nell’ambito della polizza D&O che proteggeva il gruppo automobilistico tedesco. Oggi è possibile trovare clausole di esclusione specifiche per questo fenomeno, ma al tempo eravamo tutti abbastanza impreparati al riguardo, perché le pratiche di greenwashing non si erano ancora palesate sul mercato. È quindi logico dedurre che i sottoscrittori dei rami che potrebbero essere in qualche modo esposti a questi eventi prestino ora attenzione anche a tale nuovo rischio, al quale non facevamo attenzione in precedenza.

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