Robot e certezza del diritto
Da più parti si sta paventando l’introduzione della giustizia amministrata da automi come soluzione per sentenze certe ed equilibrate. Una volta che tale traguardo fosse raggiunto, la prima cosa a cadere sarebbe il valore dell’interpretazione umana e resterebbe il rischio dell’errore di programmazione
18/12/2020
In un articolo sulla prevedibilità delle decisioni giudiziarie pubblicato su Insurance Daily del 28 agosto 2019, svolgevo alcune riflessioni sull’istituto della nomofilachia che è entrato ormai da diversi anni nella grammatica del legislatore e che avvicina il nostro ordinamento a quelli di common law, assicurando così una tendenziale calcolabilità delle sentenze. Gli esempi sono numerosi.
Il precedente come strumento per dichiarare l’inammissibilità dell’appello (348 bis c.p.c.) o per dichiarare l’inammissibilità del ricorso per Cassazione (art. 360 bis c.p.c.).
La disposizione più importante, però, è sicuramente l’art. 374, comma terzo, del Codice di procedura civile, il quale stabilisce che se la Sezione semplice della Corte di Cassazione non condivide il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, deve formalizzare il suo dissenso e rimettere a queste ultime la decisione del ricorso.
E la stessa regola vale per il processo penale (art. 618 comma 1 bis c.p.p.), nell’ambito della giurisdizione amministrativa (art. 99, comma 3, c.p.a.) e di quella contabile (art. 117 del Codice della giustizia contabile).
Non bisogna poi dimenticare che la Corte di Giustizia e la Corte Europea dei diritti dell’uomo decidono sulla base dei “precedenti”.
I presupposti filosofici
Certo, non si può pretendere che il diritto sia calcolabile come una macchina (Weber) o come un’operazione geometrica (Leibniz), ma l’apparato normativo sopra richiamato sulla nomofilachia dovrebbe garantire alle compagnie (ma il discorso vale anche per tutte le imprese e per le persone) una tendenziale prevedibilità delle future decisioni giudiziarie e, dunque, una maggiore tranquillità verso il futuro. In un mondo dominato dalla paura per tutto (Bauman), che si è acuita con la tragedia della pandemia che stiamo vivendo, la paura di una giustizia imprevedibile non dovrebbe preoccupare eccessivamente le imprese e le persone. Eppure, mai come in questi ultimi anni sono fioriti studi e si sono tenuti convegni sull’ingresso nel prossimo futuro della robotica nella decisione delle controversie.
In un convegno organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei sulla decisione robotica, giuristi, matematici, filosofi del diritto, ingegneri ed economisti hanno discusso sull’ingresso del robot negli uffici giudiziari e tante voci si sono espresse favorevolmente a tale soluzione allo scopo di assicurare una giustizia più celere, con minori costi e soprattutto più certa. È proprio l’asserita maggiore certezza del diritto che è stata al centro di tutte le relazioni.
Semplificando molto il tema, l’ingresso di un algoritmo assicurerebbe tale certezza realizzando così il paradigma leibniziano di un diritto esatto come la matematica o la geometria.
Mi permetto di sollevare alcune obiezioni di fronte a questa visione ottimistica di una futura giustizia robotica, celere, certa e con costi molto più bassi rispetto a quelli attuali.
Il problema dell’interpretazione umana
La prima obiezione ha per oggetto l’attività del giudice come interprete. Il giudice ha sempre interpretato le leggi che devono essere applicate a una fattispecie. Lo ha fatto in periodi storici nei quali le leggi erano chiare e lo deve fare oggi in un contesto nel quale le norme sono sempre meno prescrittive e sempre di più fanno riferimento a clausole generali come l’equità, la buona fede, il danno ingiusto.
Ebbene, come può un giudice-automa sostituire l’insormontabile discrezionalità dell’interprete? L’algoritmo calcola ma non interpreta.
E poi non possiamo dimenticare che in alcune materie (pensiamo alla responsabilità sanitaria), le regole che devono essere applicate sono il frutto del diritto vivente e non di norme, sicché manca proprio il presupposto perché possa essere affidata la decisione ad un giudice robot.
Sempre in relazione al tema dell’interpretazione, occorre ricordare infine che oggi i giudici, nel decidere una fattispecie sottoposta al loro esame, fanno spesso riferimento a principi/valori della nostra Costituzione. Ebbene, se si sostituisse il giudice robot al giudice umano, questi principi sui quali si fonda la nostra democrazia, non sarebbero più applicabili. Va da sé che non si possono certo sacrificare i principi costituzionali per ottenere una giustizia più certa. L’interpretazione, insomma, come ci ha insegnato il grande filosofo Gadamer, è un’operazione che solo l’uomo può svolgere.
I precedenti
Un’altra obiezione all’ingresso della robotica nelle decisioni giudiziarie, riguarda il tema dei precedenti.
Rilevavo all’inizio dell’articolo che nel nostro ordinamento spesso le cause sono decise sulla base dei precedenti. Secondo alcuni matematici e assicuratori, allora, basterebbe inserire nella memoria del giudice robot le massime affermate dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione per ottenere una giustizia oggettiva e superare così il soggettivismo del giudice.
La teoria, però, si scontra con tanti problemi pratici. Quale giurisprudenza va inserita? Solo quella più recente o anche quella più risalente nel tempo? E se la giurisprudenza ha affermato principi contrastanti e non si è ancora pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, per dirimere i contrasti, cosa si fa? E poi, in ogni caso, vincolare le decisioni solo a precedenti già consolidati, impedirebbe l’evoluzione della giurisprudenza che resterebbe immutabile, senza tener conto della società che cambia.
Insomma, anche in relazione ai precedenti, sostituire un giudice umano con un giudice robot, pone molti problemi e non assicura una giustizia più certa rispetto a quella attuale.
Anche il robot può sbagliare
L’ultima obiezione muove da un dato di fatto che ci ha insegnato un grande matematico e padre dell’informatica nonché dell’intelligenza artificiale, Alan Turing. Non esistono macchine infallibili.
L’errore, però, è sempre dell’uomo ed eventuali responsabilità ricadono sui soggetti che a vario titolo contribuiscono alla realizzazione del robot (progettista, costruttore, fornitore ecc.). Ebbene, se anche la macchina robot può sbagliare, l’esigenza di certezza del diritto che i fautori del giudice robot esaltano, viene meno.
Il robot, insomma, sbaglierebbe come il giudice umano.
La sorte dell’avvocato
Di fronte alla giustizia robotica, anche il ruolo dell’avvocato si svuoterebbe di significato. Se il giudice robot decide sulla base di un algoritmo, va da sé che le argomentazioni giuridiche e logiche che gli avvocati espongono nei loro atti non avrebbero più alcuna rilevanza.
Anche questo scenario, però, come quello del giudice robot, si scontra con i principi affermati dalla nostra Costituzione e dalla giurisprudenza costituzionale che mettono al centro della giurisdizione il ruolo dell’avvocato oltre quello del giudice.
In conclusione, per combattere l’arbitrio del giudice e l’incertezza delle decisioni, non bisogna affidarsi al potere della tecnologia confidando che essa possa risolvere tutti i problemi della giustizia. La tecnologia dovrà sempre più supportare l’attività del giudice e dell’avvocato (e già lo sta facendo in questo tragico contesto storico con l’uso delle piattaforme e le udienze da remoto) ma non potrà sostituirsi all’uomo. L’incertezza del diritto, però, si deve combattere con leggi chiare, precise e con giudici e avvocati sempre più competenti e qualificati, non con un giudice robot.
Se si dovesse concretizzare questa idea, le imprese probabilmente otterranno dei risparmi (anche se dovranno pagare ingegneri, matematici e tecnici informatici anziché gli avvocati) ma l’incertezza del diritto resterà sovrana. Con un’aggravante: un mondo giuridico sempre più appiattito, standardizzato e senza più cultura.
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