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La ripartizione degli oneri nella responsabilità sanitaria

Un caso di aborto avvenuto dopo un prelievo di liquido amniotico offre la possibilità alla Corte di Cassazione di esprimersi nel chiarire i ruoli tra il paziente attore, tenuto ad allegare il fatto, e il medico, cui spetta di provare la propria corretta condotta

La ripartizione degli oneri nella responsabilità sanitaria hp_vert_img
Non spetta all’attore provare che la prestazione medica è stata eseguita in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica, nello specifico consistita nell’indebita effettuazione di tre consecutivi prelievi di liquido amniotico, ma solamente la colpevole condotta del sanitario, secondo il criterio del più probabile che non, rimanendo a carico di quest’ultimo l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita con la dovuta diligenza professionale e che l’evento di danno si è verificato per una causa a lui non imputabile.
È questo il principio affermato dalla recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione sezione 3 Civile nella sentenza 10050 del 29 marzo scorso.
La vicenda concerne la perdita del feto da parte di una donna che alla quindicesima settimana di gravidanza si era sottoposta ad amniocentesi presso un presidio ospedaliero, ove l’esame veniva eseguito in modo imprudente e imperito dal sanitario, il quale, contrariamente alle indicazioni della letteratura medica, aveva proceduto a tre consecutive inserzioni dell’ago nell’utero della donna, con ciò provocandole il pericolo di aborto.

UNA LABILE TESTIMONIANZA
La domanda, accolta in parte dal tribunale, veniva rigettata dalla Corte d’appello, sulla base del rilievo che la condotta imprudente e imperita ascritta al sanitario, consistente nella effettuazione di tre prelievi transaddominali di liquido amniotico dalla cavità uterina, non poteva ritenersi provata in quanto la sussistenza di tale contegno colposo trovava fondamento esclusivamente nella testimonianza della madre della gestante (la quale aveva riferito di avere assistito all’amniocentesi da dietro un paravento grazie a una fessura aperta nello stesso), ma che tale dichiarazione non poteva ritenersi attendibile.
La Suprema Corte non censura naturalmente il giudizio di inattendibilità espresso dalla corte di merito in relazione alla testimonianza assunta, posto che l’apprezzamento delle risultanze istruttorie compiuto dalla corte territoriale è attività a questa riservata, ma in ogni caso, premessa la natura contrattuale della responsabilità del medico e della struttura sanitaria, ancora non vigente la legge Gelli 24 del 2017, ritiene accoglibile il ricorso per avere la Corte d’appello attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata, essendo gli attori tenuti bensì ad allegare, ma non anche a provare l’inadempimento o l’inesatto adempimento dei convenuti.

VIGE IL CRITERIO DEL “PIÙ PROBABILE CHE NON”
Come noto, il criterio di riparto dell’onere della prova che governa la responsabilità contrattuale è quello in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo credito (nel caso di specie provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del più probabile che non, la causa del danno lamentato) e abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento.
Ribadisce dunque la Suprema Corte che nella concreta fattispecie, dovendosi ritenere dimostrata, secondo i noti criteri presuntivi, la relazione di causalità tra l’intervento sanitario praticato e il successivo evento abortivo (stante il rapporto di immediatezza temporale tra l’esecuzione dell’amniocentesi e la perdita del liquido amniotico, seguita, a distanza di pochi giorni, dalla certificazione della rottura del sacco amniotico e dalla verificazione dell’aborto), in applicazione dei suindicati criteri di riparto dell’onere della prova, non sarebbe spettato alla ricorrente provare la dedotta condotta imprudente e imperita del medico consistita nelle tre inserzioni dell’ago, ma sarebbe spettato a quest’ultimo (e alla struttura sanitaria) dimostrare che tale condotta non vi era stata, che la prestazione era stata eseguita con la dovuta diligenza professionale, nonché che l’evento di danno si era verificato per una causa non imputabile al sanitario.

LA DIFFICOLTÀ DI CIRCOSCRIVERE L’INADEMPIMENTO
Nel caso di specie, invece, la corte territoriale aveva completamente disatteso gli illustrati, consolidati principi, rigettando la domanda risarcitoria sull’omessa dimostrazione dell’allegato errore del sanitario da parte degli attori, confondendo la mancata prova in relazione a una prestazione eseguita in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica, con il peso dell’onere probatorio a carico del debitore, atteso che spettava a quest’ultimo fornire la prova liberatoria di avere esattamente adempiuto, dimostrando che la condotta imprudente ed imperita addebitatagli non era stata da lui posta in essere.
Il tema appare, anche alla luce della decisione in commento, ancora scivoloso. 
L’onere della prova che spetta all’attore è sì quello di dedurre “l’inadempimento qualificato” e la correlazione causale fra questo e il danno lamentato (Cass. 28989 dell’11 novembre 2019, fra molte ad esempio), mentre al debitore della prestazione (il medico) spetta l’onere di dimostrare la propria perizia e l’assenza di un suo contributo causale alle conseguenze lamentate dal paziente. 
Tuttavia, il confine proprio della qualifica di inadempimento non sempre è di facile acquisizione. Riferire in un giudizio (come nel caso a quo) se le pratiche di intervento sulla gestante (uno o tre prelievi?) fossero adeguate o meno al protocollo (che ne prescrive una sola, per intuibili ragioni statistiche di analisi negativa) resta un elemento di allegazione demandato innanzitutto alla parte istante, la quale deve dare una indicazione di errore rilevante (appunto tre inserzioni e non una sola), lasciando poi al medico, una volta acquisito tale elemento, provare che non fu quella la causa scatenante dell’evento.
Nella fattispecie, invece, assumere che non spetti alla paziente dedurre, e soprattutto dettagliare, la condotta imprudente del medico, sposta ancora una volta (col rischio di un intempestivo ritorno al passato) il peso del principio distributivo dell’onere della prova a forte discapito del medico, con un lontano richiamo (che auspicavamo sopito nella dimensione del ricordo) a un principio di responsabilità quasi oggettiva del prestatore d’opera intellettuale e di erogazione del servizio sanitario nel caso specifico.  
 

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