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Se ha senso il danno da perdita del bene vita

In attesa della decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla ammissibilità del danno da perdita del bene vita, una sentenza di dicembre si pone come caso in controtendenza rispetto alla linea giurisprudenziale più comunemente condivisa

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Non ci piace farlo, ma ci sembra giusto che la ribalta del primo contributo del 2015 di questa rubrica sia data ad una decisione giurisprudenziale di basso contenuto giuridico.
Questo non perché vogliamo aprire l’anno con una nota necessariamente negativa, ma perché auspichiamo che da questa base di partenza si possa solo “crescere” di spessore giuridico ed intellettuale.
La Corte di Appello di Milano ha riconosciuto, in un caso di medical malpractice, il danno da “perdita del bene vita”, “iure hereditatis” a favore degli stretti congiunti di una donna venuta a mancare in conseguenza dell’errore clinico accertato.
Della risarcibilità del “bene vita”, quale voce di danno del tutto nuova nel panorama (pur già variegato e “generoso”, specie nel contesto comparativo dei nostri partners europei) che attinge al sistema di risarcimento del danno da morte, si è già dato un certo risalto anche su questo giornale (si vedano i nn. 514 e 533 del 2014).
In buona sostanza la dottrina giurisprudenziale che sostiene questa voce di danno riscontra il fondamento della sua validità nel presupposto che la persona, che deceda per il fatto illecito del reo, maturi il diritto a richiedere il danno per la privazione della vita, essendo quest’ultimo un diritto primario della persona.
Poco conta che la persona deceduta maturi tale danno nell’istante in cui (morendo) perda la titolarità soggettiva a richiedere il danno stesso nel nostro ordinamento; poco conta anche il fatto che la vittima non potrà mai godere delle (ingenti) somme a lei riconosciute a titolo di risarcimento, perché di ciò beneficeranno gli eredi (ben  300.000 euro in questo caso, oltre al danno già riconosciuto ai congiunti personalmente).
Nel panorama giurisprudenziale che costituisce l’ossatura del nostro sistema di risarcimento del danno alla persona, l’unica sentenza favorevole a tale (piuttosto debole) impianto giuridico è quella depositata dalla III sezione della Cassazione il 23 gennaio 2014 (n. 1361), mentre tutte le precedenti (ed alcune successive) dello stesso organo giurisdizionale sono sempre state (per le ragioni appena sopra evidenziate) di segno negativo.
Non si cura di tale unicità di precedente la Corte di Appello di Milano nella sentenza n. 4307 depositata in data 1 dicembre 2014, sposandone integralmente la motivazione riportata in ampi stralci a sostegno del proprio convincimento; non si cura il Collegio della totale contrarietà di tutta la giurisprudenza di legittimità e pressoché di merito in ordine a tale voce di danno; non si preoccupa il giudicante di accogliere una voce di danno che si traduca di fatto di una doppia liquidazione a favore dei medesimi soggetti (gli eredi della vittima) e dell’inesistenza di alcun compenso percepibile dalla parte effettivamente danneggiata perché nel frattempo venuta a mancare.

L’ambito di un possibile arbitrio

Quello che però ci pare sconcerti il fruitore di giustizia e l’osservatore del variegato mondo intellettuale che gravita attorno al sistema “danno alla persona” nel nostro Paese, è la apparente semplicità con la quale si possano spazzare venti anni di dottrina e di contributi giuridici di grande spessore che hanno portato sempre alla negazione di un danno, appiattendosi (per sentire comune, verrebbe da dire) alla singola decisione di segno opposto, come se la stessa avesse in un colpo solo cancellato le regole scritte e di diritto vivente del nostro sistema giuridico.
Aspettiamo da tempo che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (udienza pubblica tenutasi lo scorso 17 giugno) decidano sulla ammissibilità dell’impianto giuridico che ha portato all’unica sentenza di segno positivo nel panorama contrario del nostro ordinamento (la n. 1361 sopra citata appunto).
La solidità del sistema giustizia, però, si regge anche sulla prudenza e sull’equilibrio di giudizio della funzione giurisprudenziale, per evitare che le legittime aspettative delle vittime si traducano in un “terno al lotto”, confidando che il potere equitativo della magistratura possa talvolta sconfinare (come ci pare nel caso in argomento) nel mero arbitrio.
Aspettiamo quindi con crescente trepidazione il deposito della decisione che dovrà, si spera, risolvere la questione in modo definitivo, non tanto per limitare (non mai) il potere discrezionale dell’organo giudicante, ma per impedire (questo si) che il libero apprezzamento del giudice venga confuso con la libertà di affrancarsi dalle istituzioni del diritto e dal solco tracciato dalla stessa giurisprudenza nomofilattica.

Filippo Martini, Studio Mrv

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