Perché rimettere in gioco un principio chiaro?
L’ancora aperta questione del danno da perdita del bene vita può risultare sempre più inutile dal momento in cui le sentenze in atto si attengono ai principi chiari e definiti dalla giurisprudenza
24/07/2015
Nell’attesa “beckettiana” della sentenza “Godot” sul danno da perdita del “bene vita” (su questo giornale ne ha parlato con consueta ampiezza ed esaustività Maurizio Hazan in un contributo di qualche giorno fa), registriamo alcuni segnali dal mondo reale – inteso quello del diritto vivente – che ci confortano in ordine alla convinzione che il nostro sistema non abbia bisogno, oggi, di una nuova rivoluzione dei suoi canoni risarcitori, se rivoluzione sarà dopo oltre un anno di attesa della sentenza rimessa in decisione lo scorso 17 giugno 2014 .
Il tribunale di Napoli – per un gravissimo incidente stradale – riassume ed illustra i canoni risarcitori del nostro attuale sistema di tutela della persona e dei suoi congiunti in caso di evento morte, rammentandoci che – pur nel limbo attuale - le regole dell’oggi funzionano fin troppo egregiamente come sintesi dei diritti.
La vittima del nostro caso (sentenza del 14 ottobre 2014 – GU Dott.ssa Petitti) subisce gravissime lesioni in conseguenza di un sinistro stradale, alle quali sopravvive per più di nove mesi nel corso dei quali subisce numerosi interventi chirurgici, che non ne evitano il decesso.
Tra le varie domande avanzate dai suoi stretti congiunti, viene chiesto il danno biologico (o lesione del bene salute) per il periodo di permanenza in vita della vittima, e un’altra voce di danno definita “danno morale terminale” sul presupposto che la vittima abbia assistito consapevolmente alla propria lenta e fatale malattia e quindi abbia lucidamente patito la propria agonia.
Il tribunale accoglie la prima domanda e respinge la seconda sulla base di principi consolidati in giurisprudenza.
Presupposti evidenti per la sentenza
È infatti orientamento pacifico, nella giurisprudenza della Suprema Corte, quello secondo cui, nel caso intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse “è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica patita dal soggetto leso per il periodo di tempo indicato”.
Il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi, che possono agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis. In questo caso, l'ammontare del danno biologico (cd. terminale) sarà commisurato soltanto all'inabilità temporanea, per il tempo di permanenza in vita, e tuttavia la sua liquidazione dovrà tenere conto, nell'adeguare l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, 8 luglio 2014, n. 15491; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549; Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053, a mente della quale “l'ammontare del danno biologico, che gli eredi del defunto richiedono iure successionis, va calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva”).
Basi chiare sul danno morale
Con motivazione altrettanto attenta agli arresti giurisprudenziali attuali, il tribunale respinge invece la domanda di risarcimento del danno morale iure hereditario. Tale danno (cd. danno mortale terminale) mira al ristoro del danno subito dalla vittima per la sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine, per la cui esistenza assume rilievo la cosciente percezione da parte della vittima delle "conseguenze catastrofiche delle lesioni" (cfr. Cass., sez. III, 31 maggio 2005, n. 11601).
Il danno non patrimoniale in questione è quindi finalizzato al ristoro “della paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali”, ed è risarcibile “soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente, sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni” (cfr. Cass, 13 giugno 2014, n. 13537; si vedano anche Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 e Cass., Sez. Un., 11novembre 2008, n. 26973).
Onere di dimostrare la percezione di tale ingiusta ed inevitabile sorte (e quindi che la vittima percepiva le cure e la inutilità delle stesse) è in capo alla parte istante e quindi ai congiunti che ne chiedano il risarcimento in via ereditaria.
Nel caso di specie, poiché è mancata in giudizio la prova che la vittima avesse avuto percezione delle conseguenze ineluttabili del sinistro, avendo invece accertato che la stessa perse conoscenza per mai riprenderla in tanti mesi di cure intensive, il tribunale esclude la risarcibilità di tale eccezionale voce di danno.
L’inutilità di rivoluzionare il principio
Cosa ci insegna questa decisione (che si colloca in un panorama di tanta costante e qualificata produzione della magistratura giudicante)?
Una consapevolezza ed un timore.
La consapevolezza è che l’attuale sistema che regola il risarcimento del danno alla persona non è dettato da percezioni dottrinali estemporanee, bensì dall’approdo a principi condivisi in tanti anni di lavoro della nostra magistratura di legittimità e di merito.
Il timore è che – quando l’alba porterà la tanto attesa decisione delle sezioni unite dalla Cassazione sulla risarcibilità in sé del danno da morte – quella stessa magistratura di legittimità non opti per una (ennesima) non necessaria, né richiesta, nuova rivoluzione dei principi che reggono il nostro moderno sistema di risarcimento del pregiudizio alla salute.
Di un nuovo “revirement” non se ne sente il bisogno e la prova più chiara sta proprio nella lettura (tra tante) della decisione qui raccontata.
Il tribunale di Napoli – per un gravissimo incidente stradale – riassume ed illustra i canoni risarcitori del nostro attuale sistema di tutela della persona e dei suoi congiunti in caso di evento morte, rammentandoci che – pur nel limbo attuale - le regole dell’oggi funzionano fin troppo egregiamente come sintesi dei diritti.
La vittima del nostro caso (sentenza del 14 ottobre 2014 – GU Dott.ssa Petitti) subisce gravissime lesioni in conseguenza di un sinistro stradale, alle quali sopravvive per più di nove mesi nel corso dei quali subisce numerosi interventi chirurgici, che non ne evitano il decesso.
Tra le varie domande avanzate dai suoi stretti congiunti, viene chiesto il danno biologico (o lesione del bene salute) per il periodo di permanenza in vita della vittima, e un’altra voce di danno definita “danno morale terminale” sul presupposto che la vittima abbia assistito consapevolmente alla propria lenta e fatale malattia e quindi abbia lucidamente patito la propria agonia.
Il tribunale accoglie la prima domanda e respinge la seconda sulla base di principi consolidati in giurisprudenza.
Presupposti evidenti per la sentenza
È infatti orientamento pacifico, nella giurisprudenza della Suprema Corte, quello secondo cui, nel caso intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse “è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica patita dal soggetto leso per il periodo di tempo indicato”.
Il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi, che possono agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis. In questo caso, l'ammontare del danno biologico (cd. terminale) sarà commisurato soltanto all'inabilità temporanea, per il tempo di permanenza in vita, e tuttavia la sua liquidazione dovrà tenere conto, nell'adeguare l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, 8 luglio 2014, n. 15491; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549; Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053, a mente della quale “l'ammontare del danno biologico, che gli eredi del defunto richiedono iure successionis, va calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva”).
Basi chiare sul danno morale
Con motivazione altrettanto attenta agli arresti giurisprudenziali attuali, il tribunale respinge invece la domanda di risarcimento del danno morale iure hereditario. Tale danno (cd. danno mortale terminale) mira al ristoro del danno subito dalla vittima per la sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine, per la cui esistenza assume rilievo la cosciente percezione da parte della vittima delle "conseguenze catastrofiche delle lesioni" (cfr. Cass., sez. III, 31 maggio 2005, n. 11601).
Il danno non patrimoniale in questione è quindi finalizzato al ristoro “della paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali”, ed è risarcibile “soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente, sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni” (cfr. Cass, 13 giugno 2014, n. 13537; si vedano anche Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 e Cass., Sez. Un., 11novembre 2008, n. 26973).
Onere di dimostrare la percezione di tale ingiusta ed inevitabile sorte (e quindi che la vittima percepiva le cure e la inutilità delle stesse) è in capo alla parte istante e quindi ai congiunti che ne chiedano il risarcimento in via ereditaria.
Nel caso di specie, poiché è mancata in giudizio la prova che la vittima avesse avuto percezione delle conseguenze ineluttabili del sinistro, avendo invece accertato che la stessa perse conoscenza per mai riprenderla in tanti mesi di cure intensive, il tribunale esclude la risarcibilità di tale eccezionale voce di danno.
L’inutilità di rivoluzionare il principio
Cosa ci insegna questa decisione (che si colloca in un panorama di tanta costante e qualificata produzione della magistratura giudicante)?
Una consapevolezza ed un timore.
La consapevolezza è che l’attuale sistema che regola il risarcimento del danno alla persona non è dettato da percezioni dottrinali estemporanee, bensì dall’approdo a principi condivisi in tanti anni di lavoro della nostra magistratura di legittimità e di merito.
Il timore è che – quando l’alba porterà la tanto attesa decisione delle sezioni unite dalla Cassazione sulla risarcibilità in sé del danno da morte – quella stessa magistratura di legittimità non opti per una (ennesima) non necessaria, né richiesta, nuova rivoluzione dei principi che reggono il nostro moderno sistema di risarcimento del pregiudizio alla salute.
Di un nuovo “revirement” non se ne sente il bisogno e la prova più chiara sta proprio nella lettura (tra tante) della decisione qui raccontata.
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