L’abuso del processo tra Costituzione e clausole generali
Affidarsi alla solidità dei propri diritti, inclusi i dettagli di un contratto, potrebbe non essere sufficiente quando si vanno a intaccare principii quali la buona fede e la solidarietà
14/06/2019
Il tema dell’abuso del processo, che è disciplinato dagli articoli 88, 91, 92 e 96 del Codice di procedura civile, ma anche dagli articoli 348 bis, 348 ter e 360 dello stesso codice, è strettamente legato all’evoluzione che si è registrata negli ultimi 15 anni nel nostro ordinamento dell’applicazione dei principi costituzionali e delle clausole generali nei rapporti contrattuali, nel diritto delle obbligazioni e nei diritti delle parti nell’ambito di un processo civile e penale.
Come è noto, esiste una concezione del diritto molto diffusa denominata neocostituzionalismo, secondo la quale la giurisdizione è fonte del diritto e il giudice, più che applicare la legge, deve applicare i principii costituzionali e bilanciare questi principii scegliendo di volta in volta quello più pertinente al caso concreto. E questa operazione è fatta abbinando questi principii costituzionali (solidarietà, diritto alla salute, giusto processo) con le clausole generali (buona fede, correttezza, danno ingiusto, equità).
Il risultato a cui si perviene da questo matrimonio tra principii costituzionali e clausole generali è l’istituto dell’abuso del diritto. Un soggetto non può abusare di un proprio diritto enunciato dalla legge, da un contratto se l’esercizio di questo diritto si scontra con i principii costituzionali e con la clausola generale (di buona fede che è quella più applicata dalla giurisprudenza) o di altra clausola generale.
Va precisato, anzitutto, che l’istituto dell’abuso di un diritto è stato delineato e profetizzato nel passato da grandi giuristi. Ne ricordo solo due. Il padre dei diritti del nostro Paese, il prof. Stefano Rodotà che, nel 1966, in una famosa prolusione all’Università di Macerata, aveva messo in luce l’importanza del ruolo dell’interprete come esecutore dei principi costituzionali e, in particolare, del dovere di solidarietà. Un dovere che poi è stato il leit motiv di tutti i libri scritti da questo grande giurista.
E ricordo poi il mio professore di diritto civile all’Università Cattolica, Luigi Mengoni, il quale nelle sue lezioni e nei suoi libri aveva previsto con molti anni di anticipo il ruolo che avrebbe avuto la clausola generale di buona fede nei rapporti contrattuali, sia nella fase precontrattuale, sia in quella contrattuale, sia nella fase successiva alla stipulazione del contratto.
E qui non si può non ricordare la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (22437 del 2018) sulla claims made, dove il comportamento degli intermediari e degli assicuratori ruota intorno alla clausola generale di buona fede. Una buona fede che non è solo una regola di comportamento con effetti risarcitori ma è divenuta una regola di validità del contratto o di singole clausole contrattuali e, quindi, uno strumento in mano al giudice per controllare l’equità del contratto e per correggerlo se egli lo ritiene iniquo.
Il giudice, dunque, nell’indagare l’adeguatezza del contratto in forza della causa in concreto e della clausola di buona fede, può dichiarare la nullità della clausola e modificarla per ripristinare l’equilibrio contrattuale.
L’obbligo di comportamenti leali: il caso Renault
La sentenza più importante sull’abuso del diritto che ha coniugato il principio di solidarietà previsto dall’art. 2 della Costituzione e la clausola generale di buona fede, è senz’altro la n. 20106 del 2009 della Corte di Cassazione. Riassumo in breve la vicenda.
La Renault aveva esercitato la facoltà di recesso da tutti i contratti di concessione di vendita sulla base di una clausola contrattuale chiara e precisa.
I concessionari avevano convenuto avanti al tribunale di Roma la Renault, chiedendo che fosse accertata la nullità della clausola e il risarcimento dei danni subiti per effetto del recesso. Il tribunale di Roma e la Corte d’Appello di Roma avevano rigettato le domande dei concessionari. La Corte di Cassazione, invece, aveva cassato la sentenza della Corte d’Appello di Roma, affermando che il tribunale avrebbe dovuto sindacare l’equità della clausola, dichiarare la nullità di quella pattuizione perché contraria al principio di solidarietà che attribuisce vis normativa alla clausola generale di buona fede sostituendola con una più equa. La Cassazione ha affermato anche che la Renault avrebbe dovuto informare preventivamente i concessionari, riconoscere loro un’indennità, comportandosi cioè in modo leale, senza abusare di un suo diritto.
L’abuso del processo
Un’altra sentenza che ha per oggetto l’abuso del processo e che ha collegato un principio costituzionale (che non è la solidarietà ma il giusto processo enunciato dall’art. 111 della Costituzione) con la clausola generale di buona fede, è la sentenza n. 23726 del 2007 delle Sezioni Unite in materia di frazionamento del credito.
La Corte di Cassazione ha affermato che non è consentito al creditore di una somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, frazionare il proprio credito con la richiesta di diversi provvedimenti monitori e che questa condotta è contraria al principio costituzionale del giusto processo insieme alla clausola generale di buona fede, perché si non può aggravare la posizione del debitore.
Le stesse argomentazioni valgono con riferimento al processo esecutivo. Il creditore non può richiedere al debitore con un atto di precetto solo una parte del credito riconosciuto da una sentenza e successivamente notificare un altro precetto fondato sullo stesso titolo esecutivo, perché tale condotta è contraria al principio costituzionale del giusto processo, collegato alla clausola generale di buona fede (Cass. 15 marzo 2013, n. 6664).
Altre sentenze della Corte di Cassazione sull’abuso del processo hanno avuto per oggetto l’equa riparazione per irragionevole durata del processo. In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che si configura come abuso processuale la condotta di quei soggetti che nel processo avevano agito congiuntamente mentre successivamente avevano proposto distinti ricorsi per chiedere la condanna dello Stato all’equa riparazione del danno per irragionevole durata del processo (Cass. 8 ottobre 2014 n. 21284 e 21285).
Abuso del processo ex art. 96 terzo comma C.p.c.
Principio costituzionale del giusto processo e clausola generale di buona fede e di lealtà sono richiamati anche in numerose sentenze di giudici di merito che hanno applicato l’art. 96 terzo comma C.p.c..
Il tribunale di Varese, ad esempio, in diverse sentenze, tra le quali quella del 23 gennaio 2010, del 21 gennaio 2011, 20 ottobre del 2012, ha affermato che l’articolo in parola risponde all’esigenza di preservare l’interesse pubblico a una giustizia sana e funzionale, prevista dall’art. 111 della Costituzione, scoraggiando comportamenti sleali e scorretti, ovvero contrari a buona fede.
Nelle sentenze sopra richiamate, ma anche in altre, (trib. Foggia 28 gennaio 2011, trib. Pordenone 18 marzo 2011, trib. Reggio Emilia 25 settembre 2012) si fa riferimento alla funzione sanzionatoria, punitiva e deterrente svolta dalla norma in questione e dalla responsabilità civile in generale sanzionando il soggetto che si è comportato in modo sleale.
In alcune sentenze, e in particolare in quelle del tribunale di Varese (giudice Buffone), si fa riferimento alla polifunzionalità della responsabilità civile e si parla anche del processo come bene collettivo che va tutelato. Un’espressione che si ricollega alla teoria dei beni collettivi di un grande maestro del diritto, Stefano Rodotà, che ho già citato, il quale nei suoi numerosi scritti, sin dagli anni ‘60 ci ha ricordato sempre l’importanza di applicare il diritto, non limitandosi a un’interpretazione letterale della norma ma facendo i conti anche con quel vasto forziere di valori che è rappresentato dalla nostra Costituzione.
E ci ha ricordato sempre che ci sono dei beni (in questo caso il processo) che vanno tutelati non secondo la logica individualista del Codice Civile, ma in una prospettiva più ampia che coinvolga i valori espressi dalla nostra Costituzione e, in particolare, il dovere di solidarietà enunciato dall’articolo 2.
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