La vaghezza della claims made
Una struttura ospedaliera vede riconosciuta la richiesta di risarcimento dopo la scadenza del periodo di validità della polizza: la Corte sottolinea la sua non responsabilità nel ritardo, indebolendo però con la sentenza una soluzione assicurativa fin qui utile per il sistema sanitario
23/06/2020
- SECONDA PARTE -
Il contratto di assicurazione con clausola claims made resta dunque: “un contratto tipico, cui le parti hanno aggiunto ulteriore contenuto” e quindi, ricordano le citate Sezioni Unite n. 22347/2018, dovrà farsi riferimento: “all’art. 1322 C.C., comma 1, il quale prevede in tal caso che l’autonomia delle parti, quando si esercita all’interno del tipo negoziale, senza alterarlo e trasformarlo in un contratto atipico, deve mantenersi nei limiti imposti dalla legge”.
Ma quali sono questi “limiti” si chiede la Suprema Corte? La risposta è che: “qui il richiamo a tali limiti altro non è che il richiamo all’art. 1343 C.C.: si tratta pur sempre di un contratto tipico, salva l’aggiunta di contenuto ulteriore ad opera delle parti, e dunque di un contratto la cui liceità è misurata con il criterio dell’art. 1343 C.Cc.”, che prevede, lo ricordiamo, che “la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.
Quando le parti realizzano un assetto di interessi diverso da quello astrattamente descritto dal legislatore, dunque: “va verificata la causa concreta, ossia lo scopo economico individuale”. A volte, precisa la Suprema Corte, peraltro “è più semplicemente questione di verifica di liceità (ai sensi dell’art. 1343 C.C.) anche della singola clausola”.
Secondo il Supremo Collegio è proprio questo “il caso che ci occupa: le parti hanno arricchito il tipo contrattuale (assicurazione contro i danni) con la previsione di una decadenza a carico dell’assicurato, nei termini che si sono sopra ricordati”.
Non è quindi necessario “postulare che questa clausola giustifica l’intera operazione negoziale (nei termini della causa concreta), è sufficiente chiedersi se sia lecita in sé e per sé, alla luce del criterio di cui art. 1322, comma 1, ossia se si mantenga nei limiti imposti dalla legge”.
La decadenza ostacola l’esercizio di un diritto
La clausola, come sopra ricordato: “pone una decadenza a carico dell’assicurato non dipendente da una sua condotta: l’assicurato può fare denuncia dell’evento nei 12 mesi dalla cessazione del contratto solo se abbia ricevuto in quei termini temporali la richiesta di risarcimento del danno, condizione che ovviamente dipende esclusivamente dal terzo danneggiato. In tali termini essa contrasta con disposizioni imperative di legge, non solo con l’art. 1341 C.C., che vieta, se non sottoscritte, le clausole vessatorie, e che tra queste annovera espressamente quelle che impongono decadenze, ma altresì con l’art. 2965 C.C., che commina la nullità dei patti con cui si stabiliscono decadenze che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto”.
Difatti “il termine apposto alla escussione dell’assicurazione, ossia al diritto di far valere la prestazione assicurativa a carico dell’assicuratore, è un termine di decadenza, che è nullo proprio perché rende, nella fattispecie, eccessivamente difficile l’esercizio del diritto dell’assicurato”.
In definitiva “le clausole che rendono difficile l’esercizio del diritto (art. 2965 C.C.) sono anche quelle che prescindono dalla diligenza della parte, e che fanno dipendere quell’esercizio da una condotta del terzo, autonoma e non calcolabile. Nella fattispecie, poiché la denuncia del sinistro dipende dalla richiesta di risarcimento avanzata dal danneggiato verso l’assicurato, prima del quale quest’ultimo non ha interesse ad avvisare la sua assicurazione, il medesimo assicurato ha un onere (derivante dalla polizza) cui può adempiere solo se ha ricevuto in tempo una richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato, ossia se ha ricevuto la richiesta non solo entro 12 mesi dalla scadenza del contratto, ma nell’arco temporale dell’anno di sua validità. Con conseguente violazione di legge della relativa clausola, di cui all’art. 1322 C.C.”.
La massima che possiamo trarre da questa decisione è dunque la seguente: “La clausola claims made inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, pur non rendendo atipica la fattispecie negoziale, si rivela contraria alle disposizioni di cui agli artt. 1322 primo comma C.C., 1341 C.C. e 2965 C.C. che commina la nullità dei patti con cui si stabiliscono decadenze che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto”.
I rischi sulle polizze più datate
La statuizione delle Sezioni Unite sulla clausola claims made (N. 22347/2018), come previsto e da più parti osservato, non ha dunque risolto una volta per tutte la questione della validità dei contratti retti dalla disciplina temporale claims made, soprattutto, con riferimento alle polizze stipulate tempo fa, e oggetto di contenziosi e/o vertenze tuttora pendenti.
Così, pur avendo qualificato l’assicurazione della responsabilità civile in forma claims made come contratto tipico ormai riconosciuto anche dal Legislatore (vedi legge Gelli n. 24/2017 e decreto del ministero della Giustizia 22/09/2016 in attuazione dell’art. 12 della legge n. 247/2012), detta decisione ha infatti lasciata ai magistrati una facoltà di indagine, sulla validità/liceità di siffatta regolamentazione, in modo molto più esteso di quella dello scrutinio di “meritevolezza”, in quanto tale indagine può oggi riguardare non solo la conformazione “genetica” del contratto, ma anche la fase precedente alla sua conclusione e quella relativa all’attuazione del rapporto “rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, C.C., ma la tutela invocabile dal contraente assicurato può investire, in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto sino a quella dell’attuazione del rapporto, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili implicati, ossia (esemplificando): responsabilità risarcitoria precontrattuale anche nel caso di contratto concluso a condizioni svantaggiose; nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto, con conformazione secondo le congruenti indicazioni di legge o, comunque, secondo il principio dell’adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti; conformazione del rapporto in caso di clausola abusiva (come quella di recesso in caso di denuncia di sinistro)”.
Una certezza in meno per la responsabilità sanitaria
Dopo la decisione n. 22347/2018 delle Sezioni Unite, sino a oggi la Suprema Corte non aveva riservato particolari sorprese, confermando la validità della clausola claims made in ripetute decisioni (vedi Cass. Ordinanza 20.12.2018 n. 32939; Cass. 15.04.2019 n. 10447; Ordinanza n.16902 del 25/06/2019; Ordinanza n. 18413 del 9/07/2019; Cass. 19.07.2019 n. 19518 e da ultimo Cass. 23.04.2020 n. 8117)
L’ordinanza n. 8894/20 del 13 maggio, tuttavia, riapre un fronte molto delicato per la tenuta della copertura delle polizze di assicurazione della responsabilità civile (e prodotti), con conseguente rischio di veder dichiarare la nullità, anche parziale, dei contratti, soprattutto per difetto di causa in concreto.
Il tutto in un momento in cui il mondo sanitario sotto forte pressione e la sua tenuta (anche macroeconomica) appare sempre più condizionata dalla possibilità di reperire sul mercato le necessarie coperture assicurative rese obbligatorie dall’art.10 della legge 24/2017, norma che, tra l’altro, è ancora in attesa della sua attuazione pratica con il decreto attuativo che ritarda a vedere la luce.
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