Le nuove tabelle romane del danno biologico: una sfida per il primato?
A fine 2018, il Tribunale di Roma ha pubblicato l’aggiornamento dei suoi schemi per il risarcimento del danno alla persona e una relazione in cui sembra volersi porre in competizione con i riferimenti milanesi, considerati a vocazione nazionale. Gli avvocati Maurizio Hazan e Luca Perini, in questo speciale numero monografico di Insurance Daily, analizzano approfonditamente l’operazione della Corte capitolina
30/01/2019
Antefatti e pretesti
La strisciante rivalità tra Roma e Milano è storia antica e neppur troppo affascinante. Ma certo ancora viva e tale da infiltrare tanto il sentimento dell’uomo della strada quanto, forse con maggior garbo ma minor sincerità, la coscienza istituzionale dei rispettivi centri di governo.
Sullo sfondo, l’orgoglio di una Roma cui il proprio nome non basta più, se non accompagnato dall’aggettivo capitale. E, a far da controcanto, una certa spocchia con cui Milano si fa beffe di quell’aggettivo, rivendicando una pretesa titolarità nei fatti, e non nelle formule, del ruolo di guida autentica della Nazione.
Si chiederà il lettore: e questo che c’entra col danno biologico? C’entra e centra molto.
Perché le nuove tabelle romane risentono, eccome, di questa latente conflittualità identitaria e culturale.
L’antefatto va ricercato nella storica sentenza Amatucci 12408 del 2011 con cui la Cassazione ha riconosciuto alle tabelle adottate dal Tribunale di Milano una sorta di vocazione nazionale, sostenuta dalla loro diffusa applicazione sul territorio e tale da farle assurgere a parametro di riferimento cui tutte le Corti dovrebbero conformarsi “in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l’entità”.
Da quel momento in poi, effettivamente, i riferimenti milanesi hanno contribuito a stabilizzare il sistema risarcitorio del danno alla persona, conferendogli una certa prevedibilità e ancorandolo a parametri facilmente identificabili e tali da arginare possibili derive equitative.
È peraltro noto, a chi si occupa della materia, come una tal rotonda affermazione di principio non avesse del tutto convinto l’Osservatorio del Tribunale di Roma, in qualche modo refrattario a cedere il passo e anzi persuaso della superiorità del proprio metodo tabellare (si pensi, ad esempio, alla differente impostazione in tema di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale).
E così, nel corso degli anni successivi, nonostante la preferenza accordata a Milano fosse stata a più riprese ribadita dalla Suprema Corte, il Tribunale di Roma ha sovente continuato a tener fede ai propri criteri liquidativi, disapplicando con buona sistematicità le tabelle milanesi.
Si assisteva, in qualche modo, a un continuo lavorio sottotraccia volto a ribaltare quell’ordine di preferenza e a individuare elementi di critica utili a giustificare il distacco dai parametri meneghini. Il tutto cercando una sponda nella recente evoluzione che la giurisprudenza di legittimità ha registrato a proposito della definizione concettuale e sistematica del danno morale. Una definizione che, secondo le voci critiche, non si raccorderebbe con l’impostazione meneghina.
La situazione di contrasto è parsa poi ulteriormente enfatizzarsi nel corso del 2018, con l’ultimo aggiornamento delle tabelle milanesi e la contestuale pubblicazione di nuovi metodi tabellari per la liquidazione di altre tipologie di danno, quali quello cosiddetto intermittente e quello terminale da lucida agonia.
È in questo contesto che il 28 dicembre 2018 il Tribunale di Roma ha portato a compimento il proprio percorso, licenziando le sue nuove tabelle e, soprattutto, dando vita a una relazione introduttiva dal sapore vagamente manualistico e tale da integrare un monumentale manifesto ideologico a sostegno della loro superiorità rispetto ai valori milanesi.
Ora, il copioso documento romano tradisce davvero uno sforzo competitivo quasi agonistico. E anche per questo motivo non ci convince troppo: la comunicazione del terzo millennio, sempre più orientata a esigenze d’immediata e veloce comprensibilità, reclama semplicità di linguaggio e chiarezza espressiva. E ciò vale per chiunque, siano essi avvocati, giuristi, giudici o legislatori. Le 62 pagine che aprono e spiegano le nuove tabelle romane vanno invece in un’altra direzione, conducendo il lettore in percorsi teorici tortuosi e sovente inappaganti, sia sotto il profilo semantico che letterale.
Una relazione illustrativa che impone, per esser (forse) compresa, svariate riletture e operazioni di fine ermeneutica, dimostra tutti i propri limiti funzionali (giacché ciò che illustra non dovrebbe a sua volta esser illustrato). E ciò vale a maggior ragione quando si parla di tabelle, e cioè di metodi la cui elaborazione richiede sforzi di massima semplificazione (delle complessità sottostanti), e non certo viceversa.
Rimane il fatto che per il comparto assicurativo l’offensiva romana desta più di una preoccupazione: laddove quell’impostazione dovesse prevalere, sostituendo gli attuali riferimenti meneghini, i valori dei risarcimenti dei danni alla persona di non lieve entità (specie nella Rc auto, in assenza delle tabelle di legge) subirebbero un robusto balzo in avanti. Ma soprattutto, la contrapposizione tra gli Osservatori rischia di fornir pretesti al mercato della litigiosità (stradale e sanitaria), per alimentare una nuova conflittualità del tutto antinomica agli scopi che gli interventi tabellari in realtà vorrebbero presidiare.
Rimane il fatto che la relazione introduttiva alla tabella romana mette subito in chiaro le proprie intenzioni, autodefinendosi come l’esito di una approfondita riflessione sulle novità introdotte dalla legge 24 del 2017, in tema di responsabilità sanitaria, e dalla legge 124 del 2017 che ha sostituito come noto gli articoli 138 e 139 del Codice delle assicurazioni.
È proprio sulla base di tali due norme che la Corte Capitolina ha definitivamente “ritenuto di non poter ulteriormente utilizzare per il risarcimento del danno biologico e non patrimoniale le tabelle formate dall’Osservatorio di Milano”.
Il che costituisce, a parere di chi scrive, un approccio al tema quantomeno discutibile (ma sul punto torneremo in seguito).
Il nuovo articolo 138 (e il danno morale) quali principi ispiratori della riforma capitolina
Già da molti anni, in realtà, Roma rimproverava a Milano alcune pretese incongruenze nella modalità di costruzione della tabella, con particolare riferimento:
a. all’automatico arricchimento del punto base in funzione delle altre componenti di danno non patrimoniale: arricchimento di cui si criticava, oltre all’automatismo, il fatto che non seguisse una linea di progressiva continuità, partendo dal 25% per il primo punto sino ad appiattirsi sulla misura del 50% per tutte le lesioni di valore superiori al 34%;
b. al fatto che la percentuale massima di possibile personalizzazione, seguendo un percorso inverso, andasse diminuendo dal 50% (previsto per il primo punto) per attestarsi stabilmente al 25% per le lesioni, ancora una volta, superiori al 34%.
La combinazione di tali fattori indurrebbe, secondo Roma, un’irragionevole situazione di disparità risarcitoria proprio per tutte le lesioni comprese nel range dal 34% al 100% e, in particolare, alle più gravi tra queste (al cui crescere non corrisponde alcun proporzionale aumento né del valore del punto arricchito né del coefficiente di personalizzazione).
Orbene, la nuova formulazione dell’articolo 138, e la sua (ritenuta…) immediata cogenza, avrebbe definitivamente confermato tali critiche, e anzi ne avrebbe definitivamente rafforzato la fondatezza.
Il Tribunale di Roma ritiene che la riforma introdotta dalla legge 124 del 2017, consenta oggi di avallare, sul piano del diritto positivo, la risistemazione teorica degli assetti del danno non patrimoniale da lesione fisica propugnata dalla più recente giurisprudenza di Cassazione, con specifico riferimento alla recuperata distinzione delle componenti (morale e dinamico relazionale) che lo integrano (unitamente alla compromissione della salute in sé e per sé considerata). Ciò a definitivo superamento dell’equivoca interpretazione secondo la quale la teoria dell’unità categorica (del danno non patrimoniale), sancita dalle celebri sentenze gemelle del 2008, avrebbe necessariamente impedito di sezionare il danno biologico in ulteriori sotto-voci (in particolar modo: morali) autonomamente apprezzabili.
Non basterebbe, naturalmente, lo spazio di un articolo per dar conto di tali approdi giurisprudenziali. Volendoli semplificare al massimo, potremmo dire che gli stessi si fondano sull’idea secondo la quale il danno non patrimoniale derivante da lesioni fisiche (oltre a non riguardare la capacità di guadagno del danneggiato) si sostanzia in una compromissione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica:
a. a matrice intrinsecamente dinamico relazionale in quanto idonea a incidere sull’ordinario svolgimento delle attività quotidiane del soggetto leso;
b. a matrice naturalmente ma non necessariamente sofferenziale.
La componente dinamico relazionale sarebbe dunque coessenziale e integrerebbe indefettibilmente il danno biologico, che non sarebbe tale se non incidesse in concreto sulle funzionalità del danneggiato (si pensi al caso, scolastico, del distacco della retina di un non vedente…). La componente sofferenziale, identificata col vero e proprio danno morale, pur normalmente derivante dalle lesioni, non sarebbe invece mai in re ipsa, potendo in concreto addirittura difettare, nei casi in cui la modestia del danno o la capacità di resilienza del soggetto leso sia tale da azzerare qualsiasi impatto emotivo nel danneggiato.
Il danno morale dovrebbe dunque esser sempre allegato e provato da parte di chi ne pretenda il risarcimento, e la relativa valutazione equitativa spetterebbe al giudice, non rientrando nelle competenze accertative del medico legale (Cassazione, ordinanza 7513 del 2018).
Una tale ricostruzione sistematica, come detto, avrebbe trovato la sua definitiva consacrazione proprio nel nuovo articolo 138 del Codice delle assicurazioni, che avrebbe inglobato nel valore del punto base di danno biologico la sola componente dinamico relazionale, lasciando al danno morale autonomi margini di personalizzazione incrementale.
E proprio attorno all’articolo 138, il Tribunale di Roma ha voluto imbastire il proprio teorema demolitivo delle tabelle milanesi. Per un vario ordine di ragioni.
In primo luogo, perché quella norma afferma la regola (punto 18 della relazione) secondo la quale “il valore di ciascun punto sia determinato sulla base di un incremento più che proporzionale rispetto al punto successivo” (si tratta di un lapsus calami, in quanto l’incremento si riferisce ovviamente al punto precedente). Regola che la tabella di Milano disattenderebbe, dal momento che, prendendo in esame i valori dei punti base senza l’incremento per il danno morale, la stessa determina un incremento in valore assoluto di ciascun punto crescente soltanto fino al punto 33. Dal 34 in avanti “l’incremento assoluto previsto, pur in presenza di postumi sempre più gravi e devastanti per il danneggiato, diminuisce progressivamente fino a giungere a importi difficilmente condivisibili”.
A detta di Roma, poi, il metodo milanese si porrebbe in aperto contrasto con l’articolo 138, nella parte in cui non si occupa adeguatamente della necessaria personalizzazione del danno morale. Secondo la disposizione di legge, anche quella componente dovrebbe aumentare, in via percentuale, progressiva e personalizzata, con l’aumentare della lesione. Cosa che non avverrebbe nella tabella milanese, la quale “per gestire tale situazione indica che la personalizzazione possa essere posta in essere fino al 50% per i danni dall’1 al 9% mentre dal 10% fino al 34% la possibilità di personalizzazione non possa eccedere una percentuale che scende di un punto fino ad arrivare al 25% in corrispondenza di un danno del 34%. Dal 35% l’importo della possibile personalizzazione massima è fissato in modo costante in misura pari al 25%”. Risulterebbe dunque evidente l’irrazionalità della scelta di trattare “allo stesso modo situazioni particolari che possano riguardare danni biologici dal 34 al 100%, riservando una possibilità di personalizzazione pari al doppio per un danno biologico del solo 1%”. D’altra parte, e parallelamente, l’operazione di automatico arricchimento del punto base compiuta da Milano sarebbe:
- da un lato, figlia di un meccanismo standardizzato antinomico rispetto all’esigenza di una profilatura personalizzata, e adeguatamente provata, del singolo caso di specie;
- dall’altro, comunque inidonea a garantire la progressione incrementale voluta dal legislatore in funzione della via via maggior gravità della lesione.
Sotto questo aspetto, sostiene l’Osservatorio di Roma, “la previsione della tabella milanese di un incremento che parte del 25% e rimane costante per i primi 9 punti per poi crescere di un punto da 10 fino a 34 punti e rimanendo stabile da 34 punti fino a 100 nella misura del 50% appare insoddisfacente e non conforme alle prescrizioni di legge. Sembra evidente che il meccanismo elaborato nella tabella di Milano confligga con il criterio ora enunciato, in quanto stabilisce che da 1 punto fino a 9 e poi da 34 punti fino a 100 non vi sia alcun incremento”, laddove ancor meno convincente sarebbe la scelta di attribuire comunque un aumento percentuale fino al 25% in presenza di 1 punto di danno biologico. A fronte di danni di così lieve entità, la maggiorazione tabellare milanese avrebbe il sapore del riconoscimento di un danno in re ipsa, in aperto contrasto a quanto sostenuto al riguardo dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr. 339 Cassazione III sezione del 13 gennaio 2016).
La (pretesa) immediata cogenza dei principi sanciti dal nuovo articolo 138
Il cocktail, combinato su di una relazione di reciproco sostegno, dell’articolo 138 e dei più recenti orientamenti della terza sezione della Suprema Corte rivelerebbe, inoltre, secondo Roma tutta la sua esplosività a fronte della perfetta e immediata applicabilità dei principi sanciti dalla norma riformata dalla legge sulla concorrenza. A voler credere a quanto sostiene la relazione illustrativa alle nuove tabelle romane “dal 14 aprile 2017 (ossia dalla data in vigore della legge Gelli) i criteri individuati per la costruzione della tabella per il risarcimento del danno biologico devono essere necessariamente applicati anche in assenza della predisposizione della relativa tabella. Il comma 4 di tale articolo prevede che il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria sia risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del Codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo.” La stessa Cassazione avrebbe poi “ritenuto che detti criteri siano già in vigore anche se il Governo non ha ancora ottemperato alla emanazione della tabella con la individuazione degli specifici valori di legge (Cassazione sez. III, 20 agosto 2018, n. 20795)”.
La natura imperativa delle disposizioni dell’articolo 7 della legge 24 del 2017 chiuderebbe il cerchio, obbligando gli interpreti a considerare i principi dettati dall’articolo 138 del Cap come definitivi e applicabili in via generale a ogni liquidazione del danno non patrimoniale alla persona. Il che, e qui termina il sillogismo romano, metterebbe definitivamente fuori gioco le tabelle milanesi, giustificando la necessità di assumere quelle romane quale espressione della più corretta applicazione dei principi stabiliti dal legislatore in materia.
L’argomento, per la verità, non convince affatto.
L’articolo 7 comma 4, pur scandagliato microscopicamente, non dice affatto che i principi di cui all’articolo 138 siano già ora applicabili ai danni da medical malpractice. La norma si riferisce alla tabella, intendendosi per tale quella che sarà definita (chissà quando…?) con apposito provvedimento legislativo. E, si badi, si tratta di una tabella destinata a regolare sinistri di carattere settoriale (quelli della Rc auto e quelli della responsabilità sanitaria), contraddistinti dalla necessità di dar vita a meccanismi valutativi che tengano anche conto della sostenibilità del sistema assicurativo obbligatorio sottostante. Ritenere che i principi espressi dall’articolo 138 siano (tutti) di applicazione generalizzata e insuperabile significa negare a quelle regole liquidative la specificità che, al contrario, le contraddistingue, ancorandole espressamente alla materia automobilistica e sanitaria.
Il legislatore (piaccia o non piaccia) ha sino a oggi concepito un sistema a doppio binario, separando i danni di diritto comune da quelli che si liquidano con il sostegno dell’assicurazione obbligatoria. E solo questi ultimi vanno risarciti tenendo conto delle esigenze di contemperamento di tutti gli interessi sottesi al sistema delle responsabilità obbligatoriamente assicurate (ivi compresi quelli degli assicurati a sovvenzionarne la tenuta pagando premi in qualche modo calmierati). Il che equivale a dire che i danni della sinistrosità stradale o medica valgono un po’ meno di quelli di altra natura, non foss’altro per il chiaro limite imposto al potere di personalizzazione del giudice. E non è un caso se, in questo contesto, una delle maggiori difficoltà che ostacolano, anche dal punto di vista politico, la tanto agognata pubblicazione della tabella unica prevista dall’articolo 138 sta proprio nell’individuazione della misura del punto base, rispetto al valore già previsto per le altre tabelle di legge o dalle tabelle tribunalizie. Insomma, i principi di cui all’articolo 138 vanno apprezzati in un’ottica a sé stante, potendo certo fornire importanti spunti di riflessione anche generale ma non giustificando in alcun modo la loro necessaria applicazione fuori dal contesto settoriale di riferimento, e tantomeno in assenza della definitiva approvazione della relativa tabella unica.
Comunque, a voler ristabilire la verità delle cose, è proprio il legislatore (legge 124 articolo 1 comma 18) a prevedere che “la tabella unica nazionale predisposta con il decreto del Presidente della Repubblica di cui all’articolo 138 comma 1, del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 209 del 7 settembre 2005, come sostituito dal comma 17 del presente articolo, si applica ai sinistri e agli eventi verificatisi successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto del Presidente della Repubblica”.
E tale norma ben conosce il fatto che in assenza della decretazione presidenziale il ruolo di parametro suppletivo è stato assegnato, da quella stessa consolidata giurisprudenza di Cassazione a cui l’articolo 138 fa espresso riferimento, alle tabelle milanesi. Il che equivale a dire che, nella mente del legislatore, nelle more dell’emanazione formale della tabella, i sinistri (della Rc auto) dovranno continuare a esser liquidati secondo le regole più diffuse sul territorio, e dunque secondo i parametri tabellari milanesi.
La differenza strutturale tra le tabelle tribunalizie e quelle di legge. E il loro rapporto di reciproca inferenza
Lo scivoloso tentativo di assimilazione semantica compiuto dall’Osservatorio di Roma sembra, invero, non tenere in debita considerazione la diversa funzione tra le tabelle di legge e quelle di fonte pretoria. Queste ultime, per massima sintesi, ossequiano a un’esigenza di uniformità decisionale (contemperata da una relativa flessibilità adeguativa al caso di specie) a sua volta garantita attraverso un’attività di ricognizione e razionalizzazione del materiale esistente.
Gli Osservatori, tautologicamente, osservano e si sforzano di compendiare in un’unica tabella i risultati della loro analisi, provando a tracciare linee mediane tali da rappresentare in modo congruo gli andamenti delle liquidazioni giudiziali in casistiche consimili. In assenza di parametri normativi, e a fronte di esercizi risarcitori sostanzialmente convenzionali (in quanto incapaci a realizzare equivalenze compensative impossibili, quando si tratta di danno alla persona), le regole tabellari diventano garanzia di una qualche certezza e prevedibilità del diritto e delle decisioni, in contesti in cui l’equità, distorta da impatti emotivi sovente non trascurabili, può facilmente trasmodare in arbitrio.
In questo senso, va letta l’operazione compiuta dal Tribunale di Milano successivamente alle sentenze gemelle delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008: ci riferiamo all’arricchimento del punto base biologico, trasformato in punto danno non patrimoniale attraverso una maggiorazione oscillante tra il 25 e il 50%. Tale espansione nasceva proprio dall’attenta osservazione di quanto la prassi liquidativa di merito e maggioritaria aveva fatto registrare, riconoscendo sempre e sostanzialmente una quota di danno morale aggiuntiva (per un quarto, un terzo e sino alla metà) al danno biologico. Di quella quota non poteva non tenersi conto, al di là della sua nomenclatura, in quanto tale da integrare sistematicamente la liquidazione complessiva del risarcimento di base del danno non patrimoniale da lesioni fisiche.
Non vi era dunque, in quella integrazione tabellare, alcuna pretesa di verità scientifica o fenomenologica ma la assai più semplice costruzione convenzionale di un andamento risarcitorio allineato a ciò che la prassi faceva. E per questo ha ben funzionato, restituendo agli operatori una fotografia dell’esistente unitamente a regole liquidative attuali e coerenti con gli andamenti medi sull’intero territorio nazionale. Ed è per questo che la Suprema Corte ne ha premiato gli sforzi sistematici, facendola assurgere a strumento di riferimento nazionale.
Di tutt’altro segno sono invece le tabelle costruite dal legislatore non tanto per razionalizzare il materiale esistente ma per stabilire regole liquidative ad hoc valevoli entro determinati circuiti di responsabilità assicurata. Qui si tratta di regole e logiche proprie, da cui si possono certo inferire argomenti utili a una più larga rilettura degli assetti del nuovo danno non patrimoniale, senza però pretendere confusioni di campo o applicazioni indiscriminate al di fuori del loro alveo settoriale di appartenenza.
In un futuro, si potrà anche ipotizzare di cambiare questo approccio binario, lasciando al legislatore il compito di stabilire regole unitarie destinate a valere senza distinzioni tipologiche (e in questa direzione si pone, un poco opinabilmente, il disegno di legge 2275, attualmente in discussione). Ma si tratta, appunto, di mere eventualità. Il che ci consente di criticare l’idea, fatta propria dal Tribunale di Roma, che la spinta evolutiva dettata dal legislatore in vista della futura costruzione delle tabelle dei macro danni da Rc auto possa già oggi sostituire il ben diverso lavoro ricognitivo svolto dall’Osservatorio milanese.
E non si dimentichi il fatto che se è vero, come meglio diremo in conclusione, che il nuovo articolo 138 può già oggi fornire spunti per qualche ulteriore sforzo di razionalizzazione sistematica del materiale milanese, è altrettanto vero che quel medesimo articolo paga autentico tributo alle tabelle di Milano, giacché è (anche) a quelle che si riferisce dichiarando di dover tener conto “dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità”. Non è un caso che, a differenza della tabella romana (che contempla i soli valori del danno biologico lasciando a parte la valorizzazione della personalizzazione, anche morale), il legislatore inserisca la valutazione del danno morale all’interno della tabella unica, esattamente come Milano. Escludendola invece dall’ulteriore personalizzazione prevista dal terzo comma della norma e riservata ai soli “specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati”.
Il danno biologico e morale nel metodo romano, dopo le nuove tabelle. Alcune differenze salienti rispetto a Milano
Abbiamo visto in precedenza come il momento di caduta della tabella milanese rispetto ai principi che sarebbero predicati dall’articolo 138 si colloca, secondo Roma, oltre il limite dei 34 punti di invalidità.
Da lì in avanti Milano dimenticherebbe la regola incrementale (più che) proporzionale e stabilirebbe parametri di arricchimento e personalizzazione inappaganti, in quanto (assertivamente) non rispondenti a logiche di adeguata (e crescente) riparazione dei danni più gravi.
Si legge, dunque, al punto 25 della relazione illustrativa che “per queste ragioni il Tribunale di Roma, pur modificando la propria tabella di valutazione del danno biologico relativa ai primi 40 punti al fine di eliminare la differenza esistente con la tabella milanese, ha ritenuto di conservare il proprio sviluppo della tabella stessa dai 40 punti di invalidità in poi al fine di conservare la corretta applicazione del criterio di legge che contrasta con un incremento del punto inferiore a quello assegnato al punto precedente”. Il riferimento a 40, quando lo snodo è invece 34, è ovviamente errato. Rimane il fatto che Roma, dopo essersi adeguata a Milano (sul danno biologico base, non arricchito) sino al limite di 34 punti di invalidità, ne aumenta considerevolmente la scalarità evolutiva, fino a incrementarla di circa un terzo al raggiungimento di 99 punti di invalidità.
Quanto poi ai fattori di personalizzazione, la tabella romana propone, in luogo dell’automatismo milanese inglobato nel punto non patrimoniale, un meccanismo di difficile lettura e dal sapore vagamente cosmetico: non volendo attingere la percentuale del danno morale dal danno biologico di base compie (o meglio ripropone) un’operazione di doppia estrazione, descritta ai punti 117 e seguenti della relazione illustrativa. In sostanza, si prendono a parametro di riferimento porzioni percentuali del danno biologico, suddivise per scaglioni progressivi. E nell’ambito di tali porzioni si opereranno le personalizzazioni (sulla base di quanto effettivamente provato), ma sempre entro range di valori predeterminati e crescenti. Il tutto come da schema di seguito riportato:
Simulando un danno dell’85% in un soggetto di 50 anni il danno risarcibile sembrerebbe da calcolarsi (in euro) nei termini che seguono:
- 798.859,78 x 55% = 439.372,87 (valore medio del danno morale, se provato)
- 798.859,78 x 27,5% = 219.686,43 (valore minimo del danno morale, se provato)
- 798.859,78 x 82,5% = 659.059,31 (valore massimo del danno morale, se provato)
Ne deriverebbe che la valutazione di quel danno (biologico e morale) andrebbe da un minimo di 1.018.546,21 euro a un massimo di 1.457.919,09 euro (o almeno così pare attesa la non adamantina formula esplicativa utilizzata nella relazione).
Il delta in aumento rispetto ai valori milanesi sembrerebbe, in quest’esempio, sensibile (pari circa a un terzo), giacché secondo Milano quel medesimo danno potrebbe esser liquidato entro un range che va 773.913 euro a 967.391,25 euro. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che tale metodo a valorizzazione progressiva e crescente era già in vigore nella precedente edizione della tabelle romane, ma non ci risulta esser stato fedelmente applicato nella maggior parte delle decisioni di merito capitoline che abbiamo avuto occasione di passare in rassegna.
Ma vi è di più. Questi valori rappresenterebbero il risarcimento del danno non patrimoniale biologico e morale, per così dire, ordinario e non personalizzato. La vera e propria operazione di personalizzazione, da effettuarsi al ricorrere di situazioni particolari, e diremmo eccezionali, del caso concreto, può dar luogo a una ulteriore maggiorazione liquidativa, entro il range che va dal 10% al 50% di quanto già liquidato (punto 175 della relazione illustrativa).
Non c’è che dire: un cospicuo salto in avanti rispetto a Milano, ma non solo.
Sensibili differenze si registrano anche sul fronte del danno parentale, di quello cosiddetto intermittente e di quello terminale. Per queste voci di danno, ogni tentativo di dare una misura credibile a danni di per loro incommensurabili sconta un limite ontologico sostanzialmente insuperabile. Specie per il danno da perdita del rapporto parentale e per quello da lucida agonia, il rischio di sconfinare dall’equità all’arbitrio, lasciandosi prendere la mano da facili suggestioni emotive, è veramente elevato. Si pone dunque qui, ancor più che altrove, l’esigenza di osservare i precedenti per provare, laddove possibile, a ritrovare una regola che rivendichi non una chimerica pretesa di esattezza, o peggio di giustizia, bensì una natura dichiaratamente convenzionale ma funzionale al suo scopo.
Si tratta, invero, di dare faccia e numeri a pregiudizi di tal gravità da non render nemmeno immaginabile una compensazione equivalente in termini monetari. In questo senso riteniamo preferibile, personalmente, il metodo milanese, che si arrende all’inevitabile versatilità delle casistiche, lasciando al giudice il compito di valutarle in concreto e preoccupandosi solo di contenere il limite massimo del compendio in concreto erogabile (ferma la possibilità di superarlo al ricorrere di fattispecie eccezionali). La regola più bilancistica confermata da Roma, anche nelle nuove tabelle 2018, ha certamente il pregio di una maggior prevedibilità ma sconta, e questo è il suo limite, l’assoluta opinabilità di un metodo di lavoro teso ad attribuire meccanicamente a determinati fattori (quali convivenza, età e grado di parentela) coefficienti di risarcibilità che, a parere di chi scrive, dovrebbero invece lasciar posto a una più fluida e libera possibilità di valutazione delle complesse e sempre diverse fenomenologie parentali.
Quanto al danno terminale da lucida agonia, il Tribunale di Roma non disattende, e anzi ricalca, con qualche modifica, il metodo milanese, dando vita a una liquidazione via via decrescente col passare dei giorni, anche se entro una soglia massima di 60 giorni. Rispetto alla tabella milanese, tuttavia, i valori romani si alzano, potendo condurre a valutazioni complessivamente ben superiori, specie nei primi giorni della lucida agonia, a quelle previste dall’Osservatorio meneghino.
Del tutto diversa, invece, la valutazione sul danno intermittente (danno biologico in caso di premorienza per cause diverse da quelle che hanno cagionato la lesione), rispetto alla quale Roma ribadisce la propria precedente impostazione contestando il nuovo metodo milanese. La complessità del tema non consente di trattarlo adeguatamente in questa sede, salvo osservare, ancora una volta, la assai più marcata propensione risarcitoria delle tabelle capitoline. Si tratta, tuttavia, di una fattispecie di danno che meriterebbe, davvero, una considerazione radicalmente e strutturalmente diversa, ponendo dubbi sostanziali di compatibilità con il sistema stesso della responsabilità civile. Solo il pagamento in forma di rendita potrebbe offrire una qualche soluzione al problema.
Roma o Milano?
Non vi è dubbio che la rivendicazione romana porterà con sé qualche problema pratico, rischiando di rivitalizzare la pulsione indipendentista di ciascun foro e, in ogni caso, offrendo agli operatori della sinistrosità buoni pretesti per alimentare una conflittualità fondata sulla possibilità di sostenere, laddove conveniente, il superamento della tabella milanese (a favore di quella romana o di altra scelta tabellare di prossimità ritenuta preferibile).
Sforzandosi di essere massimamente obiettivo, pur avendo contribuito ai lavori dell’Osservatorio milanese, chi scrive non è affatto convinto della bontà della maggior parte delle ragioni espresse dal Tribunale di Roma a sostegno delle proprie tesi.
Si pensi, ad esempio, al fatto che la relazione introduttiva muove da una precisazione terminologica errata. Quella secondo la quale “per danno non patrimoniale s’intende il danno morale, come specificamente indicato dal legislatore negli articoli 138 e 139 del Codice delle assicurazioni”. Al di là del valore glossariale di tal precisazione, non può non osservarsi come il sintagma danno non patrimoniale non sia affatto utilizzato, né dall’articolo 138 né dall’articolo 139, quale sinonimo di danno morale.
Tutto al contrario, la stessa (novellata) rubrica di entrambe le norme mira ad accomunare sotto il cappello unitario e omnicomprensivo del danno non patrimoniale, tanto il danno biologico, nella sua dimensione essenzialmente dinamico relazionale, quanto quello morale, inteso a sua volta come “componente del danno… da lesione all’integrità fisica”. A scanso di equivoci, poi, la norma di legge termina con una formula di chiusura ancora una volta rivelatrice dell’accezione omnicomprensiva a cui la stessa si riferisce parlando di danno non patrimoniale: un danno il cui risarcimento, una volta calcolato sulla base dei criteri stabiliti dall’articolo 138 (sia per la componente biologica, sia per quella strettamente morale), deve ritenersi esaustivo e non ulteriormente dilatabile, a nessun titolo.
Ciò posto, una delle più gravi censure mosse avverso il metodo milanese risiede, lo abbiamo visto, nel fatto che oltre lo snodo del 34% il valore punto non aumenta in modo più che proporzionale, mentre l’arricchimento non patrimoniale si assesta e si appiattisce sul valore del 50% (e l’eventuale personalizzazione del danno si contrae, riducendosi entro la soglia del 25%). Orbene, secondo Roma, non sarebbe né conveniente né opportuno “trattare allo stesso modo situazioni particolari che possano riguardare danni biologici dal 34 al 100%”, dal momento che alle lesioni più gravi dovrebbe corrispondere un trattamento risarcitorio più favorevole. Si tratta, tuttavia, di una considerazione che non coglie nel segno, anche e soprattutto ove confrontata proprio con le previsioni dell’articolo 138 del Cap (ossia della norma alla quale il Tribunale di Roma guarda come fonte di propria ispirazione legislativa). E invero, entro quel range d’invalidità (da 34 a 100) ciascun caso può trovare la propria liquidazione personalizzata, potendo il giudice attingere liberamente dal pozzetto previsto in tabella (25%) per valorizzare in concreto gli elementi di particolare pregiudizio che, se in concreto provati, potrebbero giustificare una maggiorazione degli importi liquidati secondo i parametri medi standardizzati. D’altra parte, la regola di personalizzazione prevista dal legislatore nell’articolo 138 omologa, sul piano dei numeri, uno spettro di casi addirittura più ampi, prevedendo che l’eventuale maggiorazione sino al 30% possa essere eventualmente accordata per tutte le lesioni che si collocano entro l’intero range delle lesioni di non lieve entità (e quindi dal 9 al 100%).
Si potrebbe forse obiettare che, secondo il codice delle assicurazioni, il fattore di personalizzazione aumenta di consistenza dalle lesioni lievi a quelle più gravi (passando dal 20 al 30%), laddove invece Milano lo abbatte della metà, diminuendolo, a partire dal 34esimo punto, dal 50% al 25%. Ma, al di là della già descritta non omogeneità del metodo e della funzione tabellare settoriale di legge rispetto a quella di fonte pretoria, la logica seguita dal Tribunale meneghino tende a contenere, e non enfatizzare, fattori personalizzanti di aumento risarcitorio al crescere della lesione, dal momento che a partire dalla medesima invalidità del 34% il punto non patrimoniale ottiene già, di base, un arricchimento massimo superiore a quello delle lesioni di valore inferiore.
Più in generale, secondo Milano, la scala progressiva di valorizzazione delle liquidazioni, al crescere delle invalidità, induce a ritenere che l’importanza e la soddisfazione dei compendi risarcitori via via riconosciuti siano tali da diminuire l’esigenza di marcate personalizzazioni. Esigenza più sentita, invece, in quei casi in cui una più bassa valutazione di partenza potrebbe dar luogo a un più forte scollamento dall’effettiva incidenza dannosa di fattispecie particolari ed eccentriche rispetto alla media.
Analogo ragionamento assiste la scelta di arrestare l’incremento più che proporzionale del punto base alla fatidica soglia del 34%: di lì in avanti la crescita rimane tale e progressiva ma men che proporzionale, ritenendosi che al raggiungimento di invalidità di sensibile gravità l’incidenza sul piano dinamico relazionale non vari troppo da un punto a quello successivo (per intenderci: un macro leso all’84% vive una compromissione dinamico relazionale sostanzialmente equivalente a quella patita da un soggetto la cui invalidità si colloca all’83% o all’85%).
Tali scelte, peraltro, non sono affatto capricciose, e vanno lette in sincrono, lo vogliamo ripetere, con la funzione prevalentemente ricognitiva svolta dalle tabelle tribunalizie: si tratta, in ultima analisi (al di là dell’esercizio di razionalizzazione del materiale raccolto) di indicazioni assunte dopo aver osservato sull’intero territorio nazionale la prassi decisionale adottata in consimili casi.
Quanto, poi, e infine, alla ritenuta immediata cogenza dell’articolo 138 (recte: dei principi espressi da tal norma, anche in assenza di formale approvazione di tabella), rimangono tutti i dubbi espressi in precedenza. Ma quand’anche tale assunto fosse vero, non si vede come la tabella romana potrebbe esser applicata ai settori della Rc auto o della responsabilità sanitaria: gli spazi di larghissima personalizzazione dalla stessa previsti eccedono, e di gran lunga, i limiti massimi stabiliti proprio dall’articolo 138, la cui logica contenitiva (in funzione anche della sostenibilità del sistema obbligatoriamente assicurato e della prevedibilità della decisione) circoscrive il potere equitativo del giudice entro la soglia massima del 30%, che è ben inferiore a quella stabilita dal Tribunale di Roma.
In ultima analisi, ci pare che il metodo romano ponga più criticità di quante vorrebbe risolverne e sviluppi, a sostegno della propria prevalenza, argomenti che finiscono, in realtà, per ritorcervisi contro.
La stessa affermata centralità del danno morale nelle nuove architetture del danno non patrimoniale alla persona non pare idonea a risolvere davvero i problemi connessi alla necessità di descriverlo e individuarlo, quel danno. E soprattutto di distinguerlo da quello biologico/dinamico relazionale, quando anch’esso conseguenza di lesione fisica.
L’ormai celebre decalogo proposto dalla Cassazione nell’ordinanza 7513 del 2018 prova a definirlo, descrivendolo come sofferenza interiore, che non ha fondamento medico-legale, perché non avente base organica ed estraneo alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, ed esemplificabile nel dolore dell’animo, nella vergogna, nella disistima di sé, nella paura, nella disperazione.
Sennonché, a voler andar oltre l’apparente rotondità delle parole, davvero si fa fatica a capire perché la vergogna (che, a mente di vocabolario, si prova nei confronti di qualcuno) non debba piuttosto rientrare nella sfera dei pregiudizi dinamico relazionali. E ancor più difficile ci pare immaginare una disperazione permanente che non integri un vero e proprio danno psichico (potendo integrare la diversa connotazione della sofferenza interiore soltanto se transitoria e dunque passeggera).
L’ostinazione con cui si cerca di scomporre precisamente il danno non patrimoniale in figure, forme e altre manifestazioni spesso impalpabili e sfuggenti dimostra il limite di un approccio che pretenderebbe l’applicazione di regole chirurgiche a un contesto sostanzialmente indecifrabile.
Non è un caso, del resto, che il dibattito para-filosofico sulla dimensione della sofferenza esistenziale, morale e sulla sua risarcibilità continui a rinnovarsi secondo un andamento zigzagante e ripetitivo davvero ciclico e sfibrante.
L’impressione è, ancora una volta, che sia bene concentrare gli sforzi e le attenzioni altrove, verso le effettive esigenze di riabilitazione e recupero del danneggiato, anche e soprattutto sul fronte del danno patrimoniale.
Il dubbio (o l’auspicio?) attuale è che, anche a fronte di questi recenti e quasi faziosi contrasti giurisprudenziali, possa esser il legislatore a reclamare un suo spazio, per porre fine a dibattiti annosi e non utili al sistema.
Nelle more, si continua a ritenere che le tabelle di Milano (che pur potrebbero esser affinate sul versante degli automatismi che determinano l’arricchimento del punto base non patrimoniale) debbano resistere, in quanto espressione e garanzia di una uniformità valutativa che, ancora oggi, rappresenta con buona fedeltà gli orientamenti prevalenti di merito.
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