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Le ragioni di un nuovo patto per il welfare

Un amico stimato mi ha duramente criticato per quanto proposto nel mio precedente intervento, accusandomi addirittura di promuovere lo smantellamento del welfare pubblico italiano ed obiettando alle mie argomentazioni:

  • che la gestione previdenziale non deve essere confusa con quella assistenziale;
  • che, in ogni caso, la spesa assistenziale (stando ai dati del 2013) ammonterebbe a “soli” 25 miliardi e che dunque costituirebbe una voce non poi così rilevante del bilancio di Inps;
  • da ultimo, che l’aver dato del “viziato” al popolo italiano sarebbe stato quantomeno incauto dal momento che la pressione fiscale in Italia è molto elevata e che, ove tutti pagassero le tasse, il sistema assistenziale sarebbe certamente sostenibile.


Ora, quanto alla prima obiezione, non vi è dubbio alcuno che i trattamenti assistenziali (anche ove chiamati impropriamente “pensioni”) nulla abbiano a che vedere con le prestazioni previdenziali erogate dal medesimo Inps. Nondimeno, le risorse per restituire ai pensionati gli importi dovuti a titolo di perequazione (a seguito della sentenza della Consulta n. 70/2015) dovevano esser reperite da altre fonti. Mi pareva dunque interessante notare come nel bilancio complessivo dell'Istituto gravino delle voci – quelle riferite, per l’appunto, alla spesa assistenziale – che potrebbero (dico solo potrebbero … ) essere soggette ad una revisione da parte del legislatore.

Non è forse irrazionale che lo Stato riconosca una pensione di inabilità (totale e permanente) a chi un reddito lo produca comunque? O che l’indennità di accompagnamento venga erogata a prescindere da qualsivoglia verifica reddituale in capo al beneficiario (ed al suo nucleo familiare) e dunque senza procedere all’accertamento di un effettivo stato di bisogno?

Io ritengo di si, perché un assistenzialismo indiscriminato, specialmente a fronte della penuria di risorse finanziarie, finisce col tradire il medesimo dettato costituzionale, garantendo poco a molti invece di garantire il necessario a chi versi effettivamente nell’indigenza.

Dunque, non mi pare scandaloso auspicare che, così come si è intervenuti in materia previdenziale per correggere le distorsioni indotte dal sistema retributivo, allo stesso modo si possa intervenire sulla legislazione assistenziale al fine di eliminare alcune delle iniquità sopra riportate.

Certo, anche rivisitando la legislazione assistenziale (e qui vengo alle altre due obiezioni mosse al mio precedente articolo), un eventuale “risparmio” non sarebbe poi così apprezzabile nel quadro complessivo delle finanze statali. Ma pur sempre di iniquità si tratta e non credo di poter essere equivocato ove affermassi che ogni qualvolta una prestazione "assistenziale" venga riconosciuta a chi non versi in una situazione di effettivo bisogno economico, tale trattamento smarrisca la propria funzione di sostegno e si risolva, di fatto, in un privilegio che lo Stato, peraltro, non è oggi nelle condizioni di concedere.

Le ragioni di un nuovo patto per il welfare risiedono dunque nella necessità di superare quella convinzione diffusa (e forse non più sostenibile) che lo Stato debba riconoscere “tutto a tutti”. E ciò non per demolire il welfare pubblico ma, al contrario, affinché la matrice solidaristica propria della nostra Costituzione non venga vulnerata dagli attuali scenari di crisi. Tanto più nel bel paese, ove l’aspettativa incondizionata nei confronti dello Stato convive con una prassi altrettanto diffusa, quella dell'evasione, che priva il pilastro pubblico di risorse necessarie al suo sostentamento.

Detto in altri termini, bisognerebbe scegliere tra la botte piena e la moglie ubriaca. Agli italiani la scelta.


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