La concorrenza sleale nella distribuzione assicurativa
Un orientamento dei tribunali di Milano e Genova alimenta il dibattito sulla proprietà dei dati personali dei clienti e sul loro utilizzo a fini commerciali. Il commento dell'avvocato Andrea Bullo
22/07/2014
Va affacciandosi, nei tribunali di Milano e di Genova, un orientamento riguardante la concorrenza sleale nell'ambito della distribuzione assicurativa, le cui implicazioni meritano la massima attenzione. Con una recente sentenza (3958/14, seguita a ruota da un'altra di identico tenore, n. 6579/14), cui ha prontamente aderito il tribunale di Genova con una recente ordinanza cautelare, pubblicata per estratto su alcuni quotidiani lo scorso 7 aprile 2014, i giudici si sono pronunciati (Milano nel merito e Genova, per ora, solo sulla domanda cautelare) su altrettanti ricorsi per descrizione presentati da alcune compagnie assicurative contro propri ex agenti, che avevano illegittimamente fotocopiato e trattenuto la documentazione contrattuale del "loro" portafoglio, in vista dello sviamento di clientela in favore della nuova compagnia in procinto di rilasciare loro il mandato.
UNA PRASSI AUSPICABILE
Tali attività configurerebbero, ad unanime avviso dei giudici, una violazione del diritto di proprietà industriale della compagnia sui dati personali e contrattuali dei propri clienti. Entrambe le vicende, per sommi tratti, sono facilmente riassumibili - ed osservate decine di volte: in vista del cambio di casacca, un agente si allestisce un proprio "archivio" composto dai dati personali e contrattuali dei clienti intermediati, in vista dell'invio di una pluralità di disdette volte allo sviamento di clientela. Nel caso milanese, l'agente in carica procedette a una novazione di mandato, incassò l'indennità di fine gestione e proseguì il rapporto agenziale in altra forma, accollandosi la rivalsa. Dopo un anno, l'agente recede dall'incarico trasferendosi, armi e bagagli (e contratti), presso un'altra compagnia, per conto della quale inizia a contattare i clienti della sua ex mandante, proponendo loro le medesime coperture assicurative a condizioni più vantaggiose. Per gli operatori del settore, questa prassi è normale. Per il legislatore e l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, questa prassi è auspicabile. Per i Tribunali di Genova e Milano, invece, l'apprensione di documentazione contrattuale riservata, immessa nella banca dati della compagnia mandante, costituisce violazione della proprietà industriale: e il suo utilizzo a fini di raffronto con i prodotti della nuova mandante, ai fini di captare la clientela, costituisce concorrenza sleale. E va sanzionata: con una condanna "certamente superiore all'utile" conseguito dall'agente e dalla sua nuova mandante e con la pubblicazione della sentenza, a ristoro del danno d'immagine della ex mandante, ancorché del tutto "eventuale".
IL PATRIMONIO ESCLUSIVO DELL'IMPRESA
Nel giudizio milanese - definito nel merito e quindi più chiaro nei suoi contorni effettivi - confluiscono due rapporti. Quello tra la compagnia attrice, ex mandante, e il suo ex agente, e quello tra le due compagnie contendenti. Sotto il profilo del rapporto agenziale, il tribunale non soltanto nega che l'agente sia legato alla compagnia da un rapporto di dipendenza (e va bene) o da un dovere di fedeltà (e questo, francamente, stupisce): ma giunge ad affermare che "tutta la clientela che viene, così procurata, è da considerare patrimonio esclusivo dell'assicuratore per cui essa è stata procurata e, dopo la cessazione dei rapporti, l'agente non può tentare di distrarla a favore di altri assicuratori concorrenti". Ciò, quantomeno, "nel contesto normativo "de quo", caratterizzato dal monomandato e dal diritto all'indennità di clientela". Ove poi i dati relativi alla clientela e ai contratti siano conservati dalla mandante, essi "costituiscono il patrimonio dell'esercitata impresa assicurativa e non possono essere usati dall'agente (che ha già percepito tutti i previsti compensi per aver procurato la clientela all'assicuratore) per distrarre la clientela medesima".
IL CONFINE SOTTILE TRA AGENTE E BROKER
L'inciso in argomento offre due spunti di commento essenziali. In primo luogo, sebbene la sentenza non ne parli espressamente, è agevole arguire che la titolarità dei dati personali dei clienti e i dati relativi ai contratti sono cose ben diverse: e che, mentre i primi possono essere anche acquisiti dall'agente per il trattamento "in proprio", i secondi sono e restano nel patrimonio aziendale della compagnia, e costituiscono oggetto di specifica tutela ai sensi degli artt. 98 e 99 del Codice della proprietà industriale. Sicché, in definitiva, altro è l'autorizzazione al trattamento dei dati - che nulla impedisce all'agente di acquisire dai clienti, assumendo tutti i relativi obblighi di conservazione e utilizzo: altro è invece il dato contrattuale, che l'agente non può apprendere dalle banche dati della compagnia per farne un uso volto alla distrazione del portafoglio, indipendentemente dal fatto che abbia legittimamente acquisito dai clienti l'autorizzazione al trattamento dei loro dati. Diversamente sarebbe potuta andare la questione, se la documentazione contrattuale fosse stata rimessa all'agente direttamente dai clienti dopo la cessazione del rapporto agenziale, innescandosi in tal caso un nesso fiduciario diretto tra cliente e agente (del tutto estraneo allo schema normativo del contratto di agenzia) nell'ottica della "consulenza" di cui parla l'art. 106 del Codice delle Assicurazioni, volta alla valutazione della situazione assicurativa in vista di un eventuale replacement presso altra compagnia: ma in tal caso, il limite tra agente e broker verrebbe ad assottigliarsi pericolosamente e, comunque, la sentenza (che definisce un giudizio preceduto da una "descrizione", strumento cautelare tipico del diritto di proprietà industriale) dà atto del rinvenimento, presso i locali dell'agente, di informazioni sistematicamente sottratte e usate ai fini del raffronto.
UNA PRASSI AUSPICABILE
Tali attività configurerebbero, ad unanime avviso dei giudici, una violazione del diritto di proprietà industriale della compagnia sui dati personali e contrattuali dei propri clienti. Entrambe le vicende, per sommi tratti, sono facilmente riassumibili - ed osservate decine di volte: in vista del cambio di casacca, un agente si allestisce un proprio "archivio" composto dai dati personali e contrattuali dei clienti intermediati, in vista dell'invio di una pluralità di disdette volte allo sviamento di clientela. Nel caso milanese, l'agente in carica procedette a una novazione di mandato, incassò l'indennità di fine gestione e proseguì il rapporto agenziale in altra forma, accollandosi la rivalsa. Dopo un anno, l'agente recede dall'incarico trasferendosi, armi e bagagli (e contratti), presso un'altra compagnia, per conto della quale inizia a contattare i clienti della sua ex mandante, proponendo loro le medesime coperture assicurative a condizioni più vantaggiose. Per gli operatori del settore, questa prassi è normale. Per il legislatore e l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, questa prassi è auspicabile. Per i Tribunali di Genova e Milano, invece, l'apprensione di documentazione contrattuale riservata, immessa nella banca dati della compagnia mandante, costituisce violazione della proprietà industriale: e il suo utilizzo a fini di raffronto con i prodotti della nuova mandante, ai fini di captare la clientela, costituisce concorrenza sleale. E va sanzionata: con una condanna "certamente superiore all'utile" conseguito dall'agente e dalla sua nuova mandante e con la pubblicazione della sentenza, a ristoro del danno d'immagine della ex mandante, ancorché del tutto "eventuale".
IL PATRIMONIO ESCLUSIVO DELL'IMPRESA
Nel giudizio milanese - definito nel merito e quindi più chiaro nei suoi contorni effettivi - confluiscono due rapporti. Quello tra la compagnia attrice, ex mandante, e il suo ex agente, e quello tra le due compagnie contendenti. Sotto il profilo del rapporto agenziale, il tribunale non soltanto nega che l'agente sia legato alla compagnia da un rapporto di dipendenza (e va bene) o da un dovere di fedeltà (e questo, francamente, stupisce): ma giunge ad affermare che "tutta la clientela che viene, così procurata, è da considerare patrimonio esclusivo dell'assicuratore per cui essa è stata procurata e, dopo la cessazione dei rapporti, l'agente non può tentare di distrarla a favore di altri assicuratori concorrenti". Ciò, quantomeno, "nel contesto normativo "de quo", caratterizzato dal monomandato e dal diritto all'indennità di clientela". Ove poi i dati relativi alla clientela e ai contratti siano conservati dalla mandante, essi "costituiscono il patrimonio dell'esercitata impresa assicurativa e non possono essere usati dall'agente (che ha già percepito tutti i previsti compensi per aver procurato la clientela all'assicuratore) per distrarre la clientela medesima".
IL CONFINE SOTTILE TRA AGENTE E BROKER
L'inciso in argomento offre due spunti di commento essenziali. In primo luogo, sebbene la sentenza non ne parli espressamente, è agevole arguire che la titolarità dei dati personali dei clienti e i dati relativi ai contratti sono cose ben diverse: e che, mentre i primi possono essere anche acquisiti dall'agente per il trattamento "in proprio", i secondi sono e restano nel patrimonio aziendale della compagnia, e costituiscono oggetto di specifica tutela ai sensi degli artt. 98 e 99 del Codice della proprietà industriale. Sicché, in definitiva, altro è l'autorizzazione al trattamento dei dati - che nulla impedisce all'agente di acquisire dai clienti, assumendo tutti i relativi obblighi di conservazione e utilizzo: altro è invece il dato contrattuale, che l'agente non può apprendere dalle banche dati della compagnia per farne un uso volto alla distrazione del portafoglio, indipendentemente dal fatto che abbia legittimamente acquisito dai clienti l'autorizzazione al trattamento dei loro dati. Diversamente sarebbe potuta andare la questione, se la documentazione contrattuale fosse stata rimessa all'agente direttamente dai clienti dopo la cessazione del rapporto agenziale, innescandosi in tal caso un nesso fiduciario diretto tra cliente e agente (del tutto estraneo allo schema normativo del contratto di agenzia) nell'ottica della "consulenza" di cui parla l'art. 106 del Codice delle Assicurazioni, volta alla valutazione della situazione assicurativa in vista di un eventuale replacement presso altra compagnia: ma in tal caso, il limite tra agente e broker verrebbe ad assottigliarsi pericolosamente e, comunque, la sentenza (che definisce un giudizio preceduto da una "descrizione", strumento cautelare tipico del diritto di proprietà industriale) dà atto del rinvenimento, presso i locali dell'agente, di informazioni sistematicamente sottratte e usate ai fini del raffronto.
LE PUCULIARITA' DELL'ANA 2003
In secondo luogo, nell'ottica del tribunale, la remunerazione provvigionale esaurisce le obbligazioni della compagnia nei confronti dell'agente per l'acquisizione del cliente al proprio patrimonio aziendale: il che, a ben vedere, è del tutto coerente con il sinallagma contrattuale e va esente da censura. dal canto suo, l'indennità di clientela (dovuta e calcolata ai sensi dell'Ana 2003), costituisce una specifica compensazione per il vantaggio derivante alla compagnia dalla conservazione del portafoglio dopo la cessazione del rapporto aziendale, sulla falsa riga di quanto disposto dall'art. 1751 cod. civ.. di talché, la sua percezione impedisce all'agente di distrarre la clientela verso altri operatori. a questo punto, però, il tema si fa delicato e merita attenzione. rispetto allo schema di cui all'art. 1751 cod. civ., che riconosce all'agente cessato un'indennità fondata dalla coesistenza di "merito" ed "equità", le indennità di fine mandato riconosciute dall'Ana 2003 parrebbero avere carattere di automaticità, non postulando la valutazione dell'effettiva permanenza, in capo alla ex mandante, di "sostanziali vantaggi" derivanti dal portafoglio apportato dall'agente cessato. Mentre l'art. 1751 cod. civ. (che trova applicazione nei confronti dei subagenti, salva diversa pattuizione negoziale più favorevole a questi ultimi), infatti, subordina espressamente l'indennità al "vantaggio sostanziale" che il preponente continua a ricevere dal portafoglio sviluppato dall'agente, escludendo l'obbligo dell'indennizzo qualora l'agente si dimetta o venga revocato per giusta causa, l'indennità di cui all'Ana 2003 è dovuta anche in caso di dimissioni dell'agente e (con qualche temperamento) di sua revoca, anche per giusta causa, senz'alcun riferimento diretto alla continuità portafoliare.
LE INCOMPATIBILITA' CON LE INTEZIONI DEL LEGISLATORE
Sennonché, proprio l'istituto della "liberalizzazione", concepito in termini di eccezionalità dall'art. 12 ter dell'Ana 2003 (potendo essere esercitata dall'agente o nelle specifiche ipotesi di cui all'articolo in commento, oppure essendo rimessa alla comune volontà delle parti), induce a ritenere che l'indennità prevista dall'Ana 2003 è automatica in quanto il portafoglio non può essere trasferito. da un lato, infatti, l'art. 1751 cod. civ. ammette la possibilità che il portafoglio smetta di produrre "sostanziali vantaggi" per il preponente con la cessazione del rapporto con l'agente (nell'ipotesi contraria escludendosi il diritto all'indennizzo): nel qual caso, non si fa luogo ad alcuna indennità. L'Ana 2003, invece, postula che il portafoglio resti nella disponibilità della compagnia, proprio in ragione del fatto che la sua distrazione o è consentita dall'art. 12 ter, o è consentita da uno specifico accordo, oppure non è consentita affatto. in altri termini, sono proprio i principali istituti economici dell'Ana 2003 (e in particolare il sistema delle indennità e delle rivalse) a determinare quell'immobilismo del settore distributivo che ha innescato la reazione - talvolta scomposta - del legislatore, alimentando i timori di una progressiva "disintermediazione" del settore. Il che spiega l'avversione dell'Agcm per gli istituti in parola. Il nodo della questione, infatti, è tutto qui: in presenza di un regime di generalizzata liberalizzazione (con diritto all'indennità di fine rapporto solo in caso di effettiva permanenza del portafoglio nel patrimonio della compagnia) o di uno specifico accordo di liberalizzazione, le lite in commento non avrebbero avuto ragion d'essere. D'altra parte, un generalizzato regime di liberalizzazione potrebbe rendere giustizia agli agenti delle incertezze legate alle fluttuazioni di mercato rese possibili dagli ultimi interventi legislativi e dei maggiori costi che essi (unitamente all'implementazione degli obblighi di compliance) hanno finito col determinare, alleggerendo notevolmente la sempiterna questione sull'equità delle rivalse, dei metodi di calcolo degli interessi e via discorrendo. si tratterebbe tuttavia di un radicale cambio di prospettiva: fintantoché il rapporto fiduciario intercorrerà tra la compagnia e l'agente, e non tra questi ed il cliente, avrà poco senso rivendicare il diritto a combattere sul mercato, dovendoci andare disarmati. né, a dirla tutta, il c.d. "plurimandato" sposta i termini della questione -come sembrerebbe implicitamente adombrare la sentenza-, poiché i dati contrattuali resterebbero comunque nel patrimonio, anziché di una, di più compagnie mandanti. Ma la combinazione del rapporto diretto tra intermediario e cliente, e della liberalizzazione "a priori" del portafoglio descrive la figura del broker. V'è dunque da chiedersi se l'attuale impostazione seguita dall'Ana 2003 sia in effetti compatibile con i desiderata del legislatore e dell'Agcm in tema di "tutela del consumatore" e di "tendenziale riduzione dei premi assicurativi", che negli ultimi anni hanno costituito oggetto di interventi normativi e di indagine accolti con comprensibile diffidenza dagli operatori e, comunque, rivelatisi ampiamente inefficaci.
UN MERCATO A DOMANDA
La risposta è negativa, e la sentenza in commento lo afferma in modo tranciante. Da una parte, "il fatto che l'agente cerchi di portarsi, nel nuovo rapporto d'agenzia, il cliente. è attività illegittima e professionalmente scorretta". Dall'altra parte, "il fatto che l'assicuratore concorrente attiri il cliente medesimo, con tariffe più basse, appartiene, ugualmente, all'ambito dell'illegittimità e della scorrettezza professionale", e sarebbe "onere minimale" della nuova compagnia mandante, "conoscendo i pregressi rapporti dell'agente, di compiere tutti i necessari accertamenti, prima della stipula delle nuove polizze procurategli, per stabilire se ciò avvenisse, illegittimamente, a scapito dell'attore". In una prospettiva evolutiva di mercato, tale affermazione è obiettivamente molto forte. Che le compagnie affidino i mandati, tendenzialmente, a quegli agenti che siano in grado di trasferire il portafoglio precedentemente intermediato nell'interesse di una compagnia concorrente, è prassi talmente diffusa da non meritare ulteriori commenti. L'affidamento di un'agenzia a "portafoglio zero" appartiene forse a un romantico passato, così come l'affidamento d'un'agenzia perfettamente funzionante "chiavi in mano" è confinata ad talune ipotesi residuali, prevalentemente di stampo familiare o legate al subentro in agenzie revocate, che normalmente si portano dietro più problemi che opportunità. Che le compagnie siano al corrente dei metodi utilizzati dagli agenti di nuova acquisizione per "travasare" la clientela è fuor di dubbio. Che tali metodi possano integrare atti di concorrenza sleale è, talvolta, altrettanto indubbio, ma da qui ad affermare che la compagnia ne sia automaticamente al corrente per il sol fatto di "conoscere i pregressi rapporti dell'agente" sconta una palese forzatura. È dunque nel contenuto dei "necessari accertamenti" che la nuova compagnia mandante deve svolgere "prima della stipula delle nuove polizze procurategli, per stabilire se ciò avvenisse, illegittimamente, a scapito" della ex mandante, che deve concentrarsi l'attenzione, poiché la sentenza non esclude a priori che i clienti possano seguire l'agente nella sua nuova destinazione, ma sanziona l'ipotesi in cui ciò avvenga con mezzi "illegittimi", vale a dire mediante l'utilizzo dei dati aziendali riservati della ex mandante. in definitiva, sembra che il tribunale di Milano abbia in mente un mercato "a domanda" che nella realtà commerciale non esiste affatto. E se esiste, riguarda soltanto l'assicurazione obbligatoria, e finisce con il risolversi in un bieco confronto tra premi.
IL CONFINE LABILE TRA CONCORRENZA SANA E SLEALE
Colpisce, dunque, la ritenuta "illegittimità e scorrettezza professionale" che allignerebbe nell'attività dell'assicuratore concorrente che "attiri il cliente medesimo con tariffe più basse". ove ciò avvenga mediante una preordinata e sistematica attività di raffronto con dati aziendali riservati, nulla quaestio: è concorrenza sleale. ma in ogni altro caso -e comunque in difetto di tale puntuale dimostrazione- non si vede davvero come possa ritenersi "illegittima" una siffatta proposta, che in sé caratterizza l'economia liberale di mercato e persegue l'intento del legislatore di agevolare il consumatore mediante il contenimento delle tariffe assicurative (in particolar modo nell'ambito della Rc auto) e - perché no - mediante l'offerta di prodotti assicurativi maggiormente "adeguati" al profilo di rischio del cliente. Insomma, qualcosa proprio non convince: il nodo è venuto finalmente al pettine. il mercato si è certamente evoluto (maggiore mobilità, confronto, informazione) ma s'è portato dietro il retaggio di epoche passate, e l'elastico è ormai giunto alla sua massima estensione. Nel quadro normativo esistente, continuare a trincerarsi dietro al rapporto fiduciario tra cliente e agente è pura archeoideologia: se tale rapporto esiste, è nell'interesse della compagnia che va coltivato. Né d'altra parte è seriamente ipotizzabile che un agente, vale a dire un imprenditore che agisce a proprio rischio, sia appetibile su piazza se tutto ciò che può fare è informare i clienti di aver cominciato a lavorare per un'altra compagnia assicurativa, per poi dover attendere che essi compaiano spontaneamente alla sua porta. Eppure è innegabile che, nell'attuale contesto normativo e di mercato, la linea di confine tra la concorrenza "sana" e la concorrenza "sleale" sia sempre più labile. al punto che un'applicazione rigida del principio enunciato dal tribunale di Milano finirebbe con l'impedire qualunque manovra di ampio respiro nella distribuzione assicurativa. Portato al parossismo, esso avrebbe il dirompente effetto di agevolare comportamenti anticoncorrenziali da parte delle compagnie, impedire l'ingresso di nuovi operatori (già scoraggiati a priori dall'esistenza dell'Ana), impedire la mobilità degli agenti e, in ultima analisi, pregiudicare l'attenzione (a tratti ossessiva) riservata dal legislatore e dalle autorità di vigilanza nei confronti del consumatore finale. Oltre le barricate ideologiche e le finzioni giuridiche c'è il "mercato". Il cliente dovrebbe decidere liberamente a chi affidarsi, remunerandolo direttamente, e l'agente dovrebbe decidere liberamente dove portarlo, lasciando che le compagnie si scannino tra di loro a suon di tariffe e condizioni contrattuali.
Ma questa è la neve ad agosto.
In secondo luogo, nell'ottica del tribunale, la remunerazione provvigionale esaurisce le obbligazioni della compagnia nei confronti dell'agente per l'acquisizione del cliente al proprio patrimonio aziendale: il che, a ben vedere, è del tutto coerente con il sinallagma contrattuale e va esente da censura. dal canto suo, l'indennità di clientela (dovuta e calcolata ai sensi dell'Ana 2003), costituisce una specifica compensazione per il vantaggio derivante alla compagnia dalla conservazione del portafoglio dopo la cessazione del rapporto aziendale, sulla falsa riga di quanto disposto dall'art. 1751 cod. civ.. di talché, la sua percezione impedisce all'agente di distrarre la clientela verso altri operatori. a questo punto, però, il tema si fa delicato e merita attenzione. rispetto allo schema di cui all'art. 1751 cod. civ., che riconosce all'agente cessato un'indennità fondata dalla coesistenza di "merito" ed "equità", le indennità di fine mandato riconosciute dall'Ana 2003 parrebbero avere carattere di automaticità, non postulando la valutazione dell'effettiva permanenza, in capo alla ex mandante, di "sostanziali vantaggi" derivanti dal portafoglio apportato dall'agente cessato. Mentre l'art. 1751 cod. civ. (che trova applicazione nei confronti dei subagenti, salva diversa pattuizione negoziale più favorevole a questi ultimi), infatti, subordina espressamente l'indennità al "vantaggio sostanziale" che il preponente continua a ricevere dal portafoglio sviluppato dall'agente, escludendo l'obbligo dell'indennizzo qualora l'agente si dimetta o venga revocato per giusta causa, l'indennità di cui all'Ana 2003 è dovuta anche in caso di dimissioni dell'agente e (con qualche temperamento) di sua revoca, anche per giusta causa, senz'alcun riferimento diretto alla continuità portafoliare.
LE INCOMPATIBILITA' CON LE INTEZIONI DEL LEGISLATORE
Sennonché, proprio l'istituto della "liberalizzazione", concepito in termini di eccezionalità dall'art. 12 ter dell'Ana 2003 (potendo essere esercitata dall'agente o nelle specifiche ipotesi di cui all'articolo in commento, oppure essendo rimessa alla comune volontà delle parti), induce a ritenere che l'indennità prevista dall'Ana 2003 è automatica in quanto il portafoglio non può essere trasferito. da un lato, infatti, l'art. 1751 cod. civ. ammette la possibilità che il portafoglio smetta di produrre "sostanziali vantaggi" per il preponente con la cessazione del rapporto con l'agente (nell'ipotesi contraria escludendosi il diritto all'indennizzo): nel qual caso, non si fa luogo ad alcuna indennità. L'Ana 2003, invece, postula che il portafoglio resti nella disponibilità della compagnia, proprio in ragione del fatto che la sua distrazione o è consentita dall'art. 12 ter, o è consentita da uno specifico accordo, oppure non è consentita affatto. in altri termini, sono proprio i principali istituti economici dell'Ana 2003 (e in particolare il sistema delle indennità e delle rivalse) a determinare quell'immobilismo del settore distributivo che ha innescato la reazione - talvolta scomposta - del legislatore, alimentando i timori di una progressiva "disintermediazione" del settore. Il che spiega l'avversione dell'Agcm per gli istituti in parola. Il nodo della questione, infatti, è tutto qui: in presenza di un regime di generalizzata liberalizzazione (con diritto all'indennità di fine rapporto solo in caso di effettiva permanenza del portafoglio nel patrimonio della compagnia) o di uno specifico accordo di liberalizzazione, le lite in commento non avrebbero avuto ragion d'essere. D'altra parte, un generalizzato regime di liberalizzazione potrebbe rendere giustizia agli agenti delle incertezze legate alle fluttuazioni di mercato rese possibili dagli ultimi interventi legislativi e dei maggiori costi che essi (unitamente all'implementazione degli obblighi di compliance) hanno finito col determinare, alleggerendo notevolmente la sempiterna questione sull'equità delle rivalse, dei metodi di calcolo degli interessi e via discorrendo. si tratterebbe tuttavia di un radicale cambio di prospettiva: fintantoché il rapporto fiduciario intercorrerà tra la compagnia e l'agente, e non tra questi ed il cliente, avrà poco senso rivendicare il diritto a combattere sul mercato, dovendoci andare disarmati. né, a dirla tutta, il c.d. "plurimandato" sposta i termini della questione -come sembrerebbe implicitamente adombrare la sentenza-, poiché i dati contrattuali resterebbero comunque nel patrimonio, anziché di una, di più compagnie mandanti. Ma la combinazione del rapporto diretto tra intermediario e cliente, e della liberalizzazione "a priori" del portafoglio descrive la figura del broker. V'è dunque da chiedersi se l'attuale impostazione seguita dall'Ana 2003 sia in effetti compatibile con i desiderata del legislatore e dell'Agcm in tema di "tutela del consumatore" e di "tendenziale riduzione dei premi assicurativi", che negli ultimi anni hanno costituito oggetto di interventi normativi e di indagine accolti con comprensibile diffidenza dagli operatori e, comunque, rivelatisi ampiamente inefficaci.
UN MERCATO A DOMANDA
La risposta è negativa, e la sentenza in commento lo afferma in modo tranciante. Da una parte, "il fatto che l'agente cerchi di portarsi, nel nuovo rapporto d'agenzia, il cliente. è attività illegittima e professionalmente scorretta". Dall'altra parte, "il fatto che l'assicuratore concorrente attiri il cliente medesimo, con tariffe più basse, appartiene, ugualmente, all'ambito dell'illegittimità e della scorrettezza professionale", e sarebbe "onere minimale" della nuova compagnia mandante, "conoscendo i pregressi rapporti dell'agente, di compiere tutti i necessari accertamenti, prima della stipula delle nuove polizze procurategli, per stabilire se ciò avvenisse, illegittimamente, a scapito dell'attore". In una prospettiva evolutiva di mercato, tale affermazione è obiettivamente molto forte. Che le compagnie affidino i mandati, tendenzialmente, a quegli agenti che siano in grado di trasferire il portafoglio precedentemente intermediato nell'interesse di una compagnia concorrente, è prassi talmente diffusa da non meritare ulteriori commenti. L'affidamento di un'agenzia a "portafoglio zero" appartiene forse a un romantico passato, così come l'affidamento d'un'agenzia perfettamente funzionante "chiavi in mano" è confinata ad talune ipotesi residuali, prevalentemente di stampo familiare o legate al subentro in agenzie revocate, che normalmente si portano dietro più problemi che opportunità. Che le compagnie siano al corrente dei metodi utilizzati dagli agenti di nuova acquisizione per "travasare" la clientela è fuor di dubbio. Che tali metodi possano integrare atti di concorrenza sleale è, talvolta, altrettanto indubbio, ma da qui ad affermare che la compagnia ne sia automaticamente al corrente per il sol fatto di "conoscere i pregressi rapporti dell'agente" sconta una palese forzatura. È dunque nel contenuto dei "necessari accertamenti" che la nuova compagnia mandante deve svolgere "prima della stipula delle nuove polizze procurategli, per stabilire se ciò avvenisse, illegittimamente, a scapito" della ex mandante, che deve concentrarsi l'attenzione, poiché la sentenza non esclude a priori che i clienti possano seguire l'agente nella sua nuova destinazione, ma sanziona l'ipotesi in cui ciò avvenga con mezzi "illegittimi", vale a dire mediante l'utilizzo dei dati aziendali riservati della ex mandante. in definitiva, sembra che il tribunale di Milano abbia in mente un mercato "a domanda" che nella realtà commerciale non esiste affatto. E se esiste, riguarda soltanto l'assicurazione obbligatoria, e finisce con il risolversi in un bieco confronto tra premi.
IL CONFINE LABILE TRA CONCORRENZA SANA E SLEALE
Colpisce, dunque, la ritenuta "illegittimità e scorrettezza professionale" che allignerebbe nell'attività dell'assicuratore concorrente che "attiri il cliente medesimo con tariffe più basse". ove ciò avvenga mediante una preordinata e sistematica attività di raffronto con dati aziendali riservati, nulla quaestio: è concorrenza sleale. ma in ogni altro caso -e comunque in difetto di tale puntuale dimostrazione- non si vede davvero come possa ritenersi "illegittima" una siffatta proposta, che in sé caratterizza l'economia liberale di mercato e persegue l'intento del legislatore di agevolare il consumatore mediante il contenimento delle tariffe assicurative (in particolar modo nell'ambito della Rc auto) e - perché no - mediante l'offerta di prodotti assicurativi maggiormente "adeguati" al profilo di rischio del cliente. Insomma, qualcosa proprio non convince: il nodo è venuto finalmente al pettine. il mercato si è certamente evoluto (maggiore mobilità, confronto, informazione) ma s'è portato dietro il retaggio di epoche passate, e l'elastico è ormai giunto alla sua massima estensione. Nel quadro normativo esistente, continuare a trincerarsi dietro al rapporto fiduciario tra cliente e agente è pura archeoideologia: se tale rapporto esiste, è nell'interesse della compagnia che va coltivato. Né d'altra parte è seriamente ipotizzabile che un agente, vale a dire un imprenditore che agisce a proprio rischio, sia appetibile su piazza se tutto ciò che può fare è informare i clienti di aver cominciato a lavorare per un'altra compagnia assicurativa, per poi dover attendere che essi compaiano spontaneamente alla sua porta. Eppure è innegabile che, nell'attuale contesto normativo e di mercato, la linea di confine tra la concorrenza "sana" e la concorrenza "sleale" sia sempre più labile. al punto che un'applicazione rigida del principio enunciato dal tribunale di Milano finirebbe con l'impedire qualunque manovra di ampio respiro nella distribuzione assicurativa. Portato al parossismo, esso avrebbe il dirompente effetto di agevolare comportamenti anticoncorrenziali da parte delle compagnie, impedire l'ingresso di nuovi operatori (già scoraggiati a priori dall'esistenza dell'Ana), impedire la mobilità degli agenti e, in ultima analisi, pregiudicare l'attenzione (a tratti ossessiva) riservata dal legislatore e dalle autorità di vigilanza nei confronti del consumatore finale. Oltre le barricate ideologiche e le finzioni giuridiche c'è il "mercato". Il cliente dovrebbe decidere liberamente a chi affidarsi, remunerandolo direttamente, e l'agente dovrebbe decidere liberamente dove portarlo, lasciando che le compagnie si scannino tra di loro a suon di tariffe e condizioni contrattuali.
Ma questa è la neve ad agosto.
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