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Tabella unica nazionale, l’incomprensibile altolà del Consiglio di Stato

Sospendendo il proprio giudizio sullo schema del Dpr sulle macrolesioni, è stato bloccato all’ultimo metro un percorso ultraventennale che sembrava, finalmente, essere giunto a compimento. L’analisi dell’avvocato Maurizio Hazan, dello studio legale Thmr

Tabella unica nazionale, l’incomprensibile altolà del Consiglio di Stato hp_vert_img
Come una serie televisiva tirata troppo per le lunghe, l’inverosimile vicenda della Tabella unica nazionale (Tun), prevista dall’articolo 138 del Codice delle assicurazioni (Cap) in materia di macrolesioni da circolazione stradale e da responsabilità sanitaria, sembrava ormai giunta ai titoli di coda e alla sua tanto sospirata conclusione.  
La divulgazione dello schema del Dpr attuativo dell’articolo 138 e l’impegno pubblicamente assunto dal ministro Adolfo Urso a promuoverne in tempi brevi l’uscita lasciavano intendere che si fosse finalmente giunti a meta (e non a metà!). Vi erano, oltretutto, più che buone ragioni per credere che non vi fossero seri motivi ostativi (neanche nel passaggio obbligato davanti al Consiglio di Stato) che potessero contrastare l’impostazione della Tun. Neppure sul piano dei valori in gioco, dal momento che i parametri liquidativi individuati dallo schema di Dpr non segnavano un discostamento eccessivo rispetto alle “quotazioni” tabellari pretorie oggi in uso, avendo, anzi, tratto proprio dalla tabella milanese le proprie coordinate valoriali di riferimento, calandole all’interno dei criteri di elaborazione tassativamente indicati dall’articolo 138. Sembrava perciò non sussistessero spazi per ridare fiato alle annose e un po’ stucchevoli dispute che, in occasione dei precedenti tentativi di costruzione della Tabella, avevano contrapposto chi, rispettivamente, riteneva che la Tun liquidasse troppo o troppo poco rispetto alle tabelle milanesi. L’esercizio compiuto (soprattutto da Ivass, in corso di lavoro) ha condotto a un risultato in qualche modo assimilabile a quello prodotto dalla tabella milanese, restituendo valori liquidativi che nel loro complesso paiono a quella molto vicini (risultando financo maggiori per le macro-invalidità di più grave entità).
Insomma, c’erano tutti i presupposti affinché si potesse finalmente arrivare alla fissazione di quelle regole uniformi di valutazione economica del danno non patrimoniale indispensabili a garantire certezza del diritto e deflazione della litigiosità in un contesto tanto rilevante, sul piano sociale, quale quello della sinistrosità stradale e della responsabilità sanitaria. E invece no. 

IL PARERE DEL CONSIGLIO DI STATO
Alla saga serviva un nuovo attore e qualche pretesto per non esaurirsi. Così, a escogitare un improbabile e del tutto inatteso colpo di scena, e a promettere nuovi episodi (di cui si sarebbe francamente potuto fare a meno), ci ha pensato, in extremis, il Consiglio di Stato, che, con il provvedimento 164/2024, ha sospeso “l’espressione” del proprio parere consultivo sullo schema di Dpr sottopostogli dal MiMit. 
E lo ha fatto con un provvedimento articolato e complesso, volto da un lato a criticare, sotto più punti di vista, la (ritenuta) mancanza di supporti tecnici e istruttori idonei a giustificare le scelte strutturali e i valori economici posti alla base della tabella; dall’altro ad ammonire il legislatore attuativo a subordinare le esigenze di sostenibilità del mercato assicurativo (e dei premi posti a carico dei consumatori) rispetto al diritto intangibile dei danneggiati a conseguire una piena soddisfazione delle proprie ragioni risarcitorie. Al riguardo pare opportuno subito ricordarsi come l’articolo 138 del Cap, nel fissare i criteri guidanti ai fini della costruzione della Tun avesse chiaramente dettato un preliminare principio di base, mirato a bilanciare “il diritto delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito” con l’obiettivo di “razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo e sui consumatori”. Principio che trova il suo senso all’interno dei sistemi di responsabilità obbligatoriamente assicurati, in cui l’esistenza di una copertura assicurativa a tutela (anche e soprattutto) dei danneggiati, a fronte di rischi socialmente diffusi, giustifica un approccio mutualistico e solidale, nel più ampio senso del termine.  Ebbene, il Consiglio di Stato non sembra pensarla esattamente così, ritenendo piuttosto, e questo è il leit motiv che anima trasversalmente il documento, che “la sostenibilità degli impatti economici sul sistema assicurativo” non debba mai dar luogo a un “generalizzato e ingiustificato temperamento o, perfino (a una) misurata e programmatica riduzione della tutela delle vittime”.
Insomma, l’impressione è che, sotto traccia e dietro a motivazioni non sempre lineari, lo sforzo del Consiglio di Stato sia animato da una sorta di pregiudizio ideologico, mirato, più che a enfatizzare il sacrosanto diritto delle vittime a un risarcimento pieno e soddisfacente, a evitare che il nuovo impianto tabellare possa favorire indebitamente gli appetiti (al risparmio) del mercato assicurativo. Sullo sfondo, per farla breve, traluce dunque un obiettivo (non velatamente) dichiarato: far sì (e comunque esser certi) che la tabella di legge non liquidi mai meno di quanto sinora risarcito dal sistema tabellare in uso presso le Corti di merito. Ed è proprio sulla scorta di tale obiettivo che il Consiglio di Stato squaderna una serie di considerazioni che, come meglio vedremo in seguito, lasciano in buona parte perplessi. Tanto sul piano semantico quanto su quello della complicazione linguistica del suo elaborato, in più passaggi annodato da una sorta di autocompiacimento letterario che ne complica, anziché semplificarne, l’intelligibilità testuale. 
Di qui il senso di spossatezza che un umile operatore del diritto ritrae dal doversi talvolta misurare con apparati istituzionali animati, sembra, più che dalla volontà di risolverli, dalla tendenza ad aggravare i problemi, perdendo di vista gli obiettivi di fondo quando non addirittura annegandoli in un mare retorico inquinato da pregiudizi.  
Ma proveremo a dar conto delle ragioni che ci portano a dissentire, e molto, dalla presa di posizione del Consiglio di Stato. In quest’ottica ne sezioneremo le motivazioni provando, sia pur velocemente, a controbatterle. 


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IL METODO DELLA TUN
In sostanza, i giudici di Palazzo Spada non sono convinti del metodo seguito dalla Tun. Metodo che, come anticipato, ha trovato nella tabella milanese le proprie coordinate di riferimento, provando a coniugarne i valori, attraverso un non semplice esercizio algoritmico, con l’applicazione dei criteri di costruzione della tabella indicati dall’articolo 138. Il contesto valoriale così acquisito dalla prassi, sulla base di quanto liquidato dal mercato assicurativo in un dato ambito temporale di riferimento sulla base delle tabelle tribunalizie a tutt’oggi in uso, ha costituito dunque il parametro attorno al quale strutturare una tabella in grado di garantire una sostanziale, anche se non puntuale, equivalenza dei costi risarcitori complessivamente posti a carico del mercato assicurativo (pre e post tabella). Ovviamente ciò non poteva condurre a una esatta sovrapponibilità di tutti i risarcimenti quantificati in base alla Tun a quelli risultanti dall’applicazione della tabella milanese. Se il legislatore avesse voluto replicare esattamente il metodo milanese (avente vocazione nazionale paranormativa in attesa della Tun e a far tempo dalla sentenza 12408/2011) lo avrebbe fatto, expressis verbis. E soprattutto non avrebbe introdotto criteri di costruzione della curva esplicitamente e inequivocabilmente diversi da quelli adottati dal tribunale di Milano, la cui tabella non ottempera al principio della “più che proporzionalità” stabilito dall’articolo 138 comma 2 c. 
Nella disparità di questa scelta legislativa si innesta l’inevitabile impossibilità di ottenere, con la tabella di legge, liquidazioni del tutto identiche a quelle meneghine. L’importante era dunque trovare una sostanziale omogeneità valoriale, nel complesso non penalizzante né per i danneggiati né per i responsabili civili (di regola assicurati). Il tutto, peraltro, rispettando il principio di bilanciamento di tutti gli interessi che l’articolo 138 intende equamente contemperare.
Al riguardo il Consiglio di Stato predica invece la necessità di sostenere lo schema di Tun con una diversa e più accurata analisi volta a garantire un “complessivo confronto comparativo con lo status quo, sia in termini assoluti, sia in termini relativi, in relazione ai diversi gradi di invalidità, in tal modo non offrendo elementi per scongiurare il rischio di regressione dei risarcimenti”. Quel che sembra leggersi, dunque, è l’idea che in nessun caso la nuova tabella possa pagare il danneggiato meno che in passato. Poco importa, pare di leggere, che per alcuni gradi di (superiore) invalidità lo schema della tabella di legge supera, e anche di molto, i valori milanesi: l’importante è che “anche nel quadro delle tabelle ministeriali di nuovo conio siano escluse in prospettiva programmatica, valutazioni al ribasso rispetto agli assetti remediali da riguardarsi quali tendenzialmente consolidati”.
E a confermare la necessità di non arretrare mai da quella linea Maginot vi sarebbe, secondo il Consiglio di Stato, il richiamo contenuto nell’articolo 138 “all’acquis giurisprudenziale (che) mira, con ogni evidenza, a salvaguardare, negli intendimenti del legislatore, la garanzia di effettività e congruenza del risarcimento del danno”. 
Si tratta di una lettura evidentemente distorta: la tabella di legge, pur dovendo tener conto degli orientamenti della consolidata giurisprudenza di legittimità (leggasi: dell’Osservatorio del tribunale di Milano, la cui tabella è la sola citata in tema dalla Suprema Corte) non deve affatto sovrapporsi alla stessa, perseguendo finalità e ossequiando una ratio affatto peculiare rispetto a quella. Del resto, le regole di liquidazione all’interno dei sistemi di responsabilità obbligatoriamente assicurata si applicano a quegli specifici settori (Rca e med mal) e non a tutti i sinistri che abbiano cagionato danni fisici: la plastica dimostrazione della differente impostazione delle regole normative rispetto a quelle previste nella prassi pretoria sta nel confronto tra i valori espressi dalla tabella di legge prevista dall’articolo 139 del Cap in tema di lesioni lievi e quelli (decisamente superiori) invece risultanti dall’applicazione della (diversa) tabella milanese. Il fatto che, quanto alle lesioni di grave entità, sia stata la giurisprudenza ad aver svolto un ruolo suppletorio nella perdurante assenza dell’attuazione della tabella unica prevista dall’art. 138 Cap prestando la propria tabella universale ai danni da Rca e Rc sanitaria non può valere a invertire il senso delle priorità: le tabelle milanesi che fino a oggi hanno funto da surrogato, non hanno mai avuto la pretesa di applicare gli specifici criteri di costruzione della curva previsti dall’articolo 138 (stabiliti peraltro soltanto nel 2017…). E per tale ragione non possono oggi ontologicamente costituire la base esatta su cui impostare la Tun, se non in termini lati e tali da fornire un semplice riferimento di massima sul piano dei valori espressi. Il che equivale a dire che se da un lato non ce ne si deve troppo allontanare (come invece accade per le lesioni più lievi) dall’altro non si deve imporre come vincolo la necessità di rispettare pedissequamente le risultanze risarcitorie espresse dalla tabella milanese.
Ciò detto, abbiamo già rilevato come il ragionamento attraverso il quale il Consiglio di Stato tenda a sostenere la sua idea (di non ammettere alcuna “valutazione al ribasso”) parta da molto più in alto, muovendo da alcune affermazioni di principio piuttosto discutibili.


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LA RATIO PROGRAMMATICA DELLA NORMA
Il tema è quello inerente all’individuazione della ratio programmatica che sta alla base dell’articolo 138 del Cap e che si presenta nell’altisonante incipit della norma, dichiaratamente finalizzata a “garantire il diritto delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito” e a “razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo e sui consumatori”. Tali due proposizioni finalistiche sono poste in relazione di reciproco bilanciamento, con l’obiettivo di trovare un giusto equilibrio che dia pieno ristoro ai danneggiati senza tuttavia pesare in modo eccessivo e irrazionale sulla sostenibilità del sistema assicurativo (e sui livelli dei premi posti a carico della collettività).
Non così secondo il Consiglio di Stato il quale, al contrario, afferma con una singolare sicurezza che tali due obiettivi “ancorché concorrenti – e tali da prefigurare un necessario e ragionevole bilanciamento – […] non si collocano, tuttavia, sul medesimo piano”.  Si tratterebbe, invero, di un bilanciamento… sbilanciato (!!!) dal momento che  la direttiva primaria dell’articolo 138 mirerebbe a una “valorizzazione positiva di un canone di pienezza e di effettività remediale” e solleciterebbe “in prospettiva essenzialmente vittimologica e solidaristica, la elaborazione di una criteriologia risarcitoria formulata in termini di tendenziale adeguatezza delle poste di danno, destinate a compensare, in via necessariamente equitativa, la compromissione della “integrità psico-fisica della persona”. In questo senso, dunque, le “plausibili esigenze di uniformità, omogeneità e certezza nella liquidazione dei danni non patrimoniali” (che obbediscono a un canone di uguaglianza tra situazioni comparabili e agevolano una definizione stragiudiziale delle controversie) cederebbero naturalmente il passo davanti alle più commendevoli e comunque prioritarie esigenze “vittimologiche e solidaristiche” predicate dai giudici di palazzo Spada. 
A noi pare che questo (a più riprese martellato) ammonimento rivolto al ministero e teso a non far prevalere le esigenze di sostenibilità del mercato assicurativo (e dei premi posti a carico dei consumatori) sul diritto intangibile dei danneggiati a conseguire una piena soddisfazione delle proprie ragioni risarcitorie, non abbia ragion d’essere. In primo luogo perché non siamo di fronte a poste di danno esattamente valutabili: la valutazione di “adeguatezza” o di effettiva “pienezza” del risarcimento, pur giustamente (ma astrattamente) invocabile, si scontra con la mancanza di qualsiasi puntuale e oggettivo ancoraggio corrispettivo. La misura dell’equità tabellare, nel campo delle macrolesioni della Rca,  non può che trovare fonte in una regola deliberatamente convenzionale, la cui adeguatezza (rispetto a cosa, poi…?) va intesa cum grano salis, tenendo conto del concorrente operare di vari fattori, tra i quali: la prassi giurisprudenziale prevalente, la coerenza con la tabella prevista dall’articolo 139 in materia di micropermanenti, il confronto con il panorama europeo e l’ammontare complessivo dei costi risarcitori gravanti sul sistema obbligatoriamente assicurato (costi aggravati dai sempre crescenti impatti economici recati dalle componenti di danno patrimoniale sul valore dei risarcimenti delle lesioni più gravi). Secondariamente perché le regole liquidative del danno alla persona nel sistema della Rca esprimono proprio la chiara volontà di porre rimedio a quelle incertezze applicative di fonte giurisprudenziale (si pensi al continuo confronto/scontro campanilistico tra l’Osservatorio milanese e il tribunale di Roma) che tanto pregiudicano la corretta assunzione/gestione dei rischi nei settori nevralgici della circolazione stradale e del rischio clinico. Ma non solo: la scelta di contenere i risarcimenti entro livelli standardizzati, e comunque limitati entro una soglia di massima risarcibilità, esprime proprio quella regola di “equità codificata” volta a determinare una misura unitaria del risarcimento/indennizzo che, pur accordando adeguato ristoro ai danneggiati, non pregiudichi la tenuta generale del sistema né conduca i premi ad alzarsi a livelli tali da impedire a determinate categorie di utenti di accedere alle coperture. Ciò a maggior ragione nel campo della Rc auto, in cui l’alea automobilistica è espressione di un rischio endemicamente connaturato al fenomeno della circolazione stradale, rispetto al quale ciascun utente della strada riveste, di norma, sia il ruolo di potenziale protagonista passivo che di portatore attivo.
Di qui la possibilità di leggere, in quel binomio normativo (articoli 138 e 139 del Cap), l’espressione di un’equità solidale di cui lo stesso danneggiato è parte, fruendo i benefici connessi alla disciplina della Rc auto (l’azione diretta, in primis) e al contempo sovvenzionandola attraverso l’accettazione di una convenzione risarcitoria predeterminata nei valori massimi. Convenzione che sola può risolvere quelle difficoltà di ordine tecnico-organizzativo che altrimenti condurrebbero a un insanabile conflitto, e dunque a un punto di rottura, tra gli obiettivi di tutela del danneggiato e le esigenze di corretto funzionamento dello strumento assicurativo obbligatorio.
Ma a un ragionamento del tutto equivalente sul piano del bilanciamento degli interessi in gioco può, e deve, essere svolto nel settore specifico della sanità, in relazione al quale la stessa Cassazione (sentenza n. 28990/2019) ha mirabilmente osservato come il sistema risarcitorio previsto dal Cap realizzi anche nel comparto sanitario quel bilanciamento tra plurimi interessi di rilevanza costituzionale (l’interesse del danneggiato a ottenere il ristoro del danno patito; l’interesse generale e sociale al perseguimento di fini solidaristici) rispondendo “anche all’esigenza di non distogliere risorse indispensabili all’espletamento del servizio, contrastando i riflessi negativi sulla organizzazione ed erogazione del servizio sanitario pubblico, determinati dall’incremento esponenziale degli impegni finanziari delle Aziende sanitarie preoccupate a immobilizzare sempre maggiori risorse per fare fronte alle possibili richieste risarcitorie a decremento dei necessari investimenti strutturali”.
L’obiettivo di calmierare i risarcimenti della Rca e della med mal traspare, peraltro, anche dal fatto che il risarcimento calcolato secondo le tabelle di legge sia nel suo complesso, “esaustivo del risarcimento del danno conseguente alle lesioni fisiche” (articolo 138 comma 4): regola, questa, che segna un’altra netta  differenza tra i sistemi risarcitori obbligatoriamente assicurati (in relazione ai quali operano i limiti di legge) e quelli invece relativi ai sinistri di diritto comune, per i quali rimane (teoricamente) salvo un maggior potere discrezionale del giudice, che potrebbe esplodere la personalizzazione anche al di là del limite di legge (fissato nel 20% o nel 30% a seconda che si tratti di micro o macro lesioni).
Rimane poi da osservare che laddove il Codice delle assicurazioni abbia voluto graduare per priorità le diverse finalità presidiate da una medesima norma (art. 3 del Cap) lo ha fatto espressamente, distinguendo apertis verbis tra obiettivi di rango primario e obiettivi subordinati. In conclusione, su questo specifico punto, pare che le argomentazioni del Consiglio di Stato finiscano per obliterare, anziché presidiare, i principi di bilanciamento posti dall’articolo 138 Cap.


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I LIVELLI DEI RISARCIMENTI
Ma sembra anche, e prima ancora, che le accorate preoccupazioni che stanno alla base di quel ragionamento (quelle secondo le quali la bozza di Tun arretrerebbe il livello dei risarcimenti e abbasserebbe il livello di tutela dei terzi danneggiati) non siano del tutto fondate da un punto di vista empirico e concreto. A conti fatti e con l’ausilio di simulazioni numeriche, sarebbe stato, invero, facile osservare come lo schema del Dpr restituisca valori liquidativi che nel loro complesso paiono molto vicini a quelli liquidati in base alla tabella milanese, ponendosi semmai (rispetto a quella) in termini addirittura più favorevoli per i danneggiati più gravi. E se, da un certo punto di vista, può giustificarsi la scelta di accordare una più qualificata attenzione risarcitoria ai sinistri più seri, da altro angolo visuale non parrebbe in alcun modo possibile, né giusto, andare sistematicamente in eccesso rispetto ai valori milanesi per tutti i punteggi di invalidità della curva. Per poter dare un senso alla regola “corrispettiva” imposta dall’articolo 138 si dovrebbe accuratamente evitare di consentire alla Tun di superare le liquidazioni derivanti dalla tabella milanese, pena una singolare eterogenesi dei fini (che porterebbe al paradosso secondo cui le liquidazioni da Rc auto o sanitaria finiscano per essere addirittura superiori a quelle cosiddette di diritto comune). 
Altro e diverso tema è quello che attiene ai dubbi che possono porsi circa il mantenimento di una disciplina risarcitoria a doppio binario (a parità di lesione): ma si tratta di un argomento che non riguarda il Dpr attuativo, bensì la norma primaria. Quanto al database (relativo ai sinistri) utilizzato per assemblare il monte risarcitorio liquidato dal mercato assicurativo in un dato campione temporale (e assumerlo come parametro di riferimento per calcolare l’algoritmo che restituisca lo stesso montante, per la medesima frequenza ma in applicazione ai nuovi criteri di legge) si tratterebbe, secondo il Consiglio di Stato, di un lavoro anch’esso non adeguato, in quanto fondato su dati non sufficientemente aggiornati e anzi temporalmente risalenti. Ciò che il provvedimento di sospensione rimarca è l’assoluta esigenza di attualizzare tali valutazioni, tenendo conto della separata liquidazione del danno morale, degli ultimi aggiornamenti delle tabelle milanesi e romane, anche a fronte dell’adeguamento inflattivo.
Anche sotto questo profilo la censura non sembra del tutto pregnante, tanto più nella parte in cui richiama le tabelle romane, tabelle che, sul danno non patrimoniale da lesione, non possono essere considerate come il parametro al quale riferirsi in aderenza all’orientamento della consolidata giurisprudenza di legittimità. D’altra parte l’esigenza di aggiornamento si sarebbe posta se, con verifica ex post, i valori espressi dalla bozza di curva Tun fossero stati davvero lontani da quelli oggi liquidati dalla tabella milanese, il che, lo abbiamo visto, non è. 


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IL CONCERTO CON IL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
A condire il tutto, si aggiunge infine la critica mossa al ministero della Giustizia per non aver fornito alcun contributo critico nel concerto tra dicasteri, essendosi sostanzialmente limitato a un “nulla osta” che, per quanto tecnicamente legittimo, autorizzerebbe più di un dubbio sulla qualità e sull’effettività dell’apporto concretamente offerto in sede di consultazione. Apporto che avrebbe dovuto essere, invece, ben più ponderato e serio, attesa la natura prevalentemente giuridica delle questioni di diritto da affrontare nella costruzione di una tabella di legge adeguata. Il condizionale è ovviamente d’obbligo, dal momento che la censura del Consiglio di Stato assume i toni di una vera e propria accusa al buio, per di più difficilmente sostenibile sul piano formale.
Qui giunti, crediamo di poter tirare le fila e riavvolgere il nastro stendendo una nota di (neppur troppo) velata amarezza per la discutibile presa di posizione assunta dal Consiglio, in nome di alcune affermazioni di principio quanto meno discutibili. Il parere è stato dunque sospeso onde “consentire all’Amministrazione richiedente di riattivare (anche a mezzo di apposito confronto pubblico con i soggetti a vario titolo rappresentativi) l’analisi di contesto e aggiornare (con il necessario supporto tecnico e istruttorio) i dati sottostanti alla articolata elaborazione tabellare”. Rimane da chiedersi a chi giovi davvero questo ulteriore supplemento di dibattito, largamente ripetitivo di un più ampio lavoro svolto (tanto più in considerazione del carattere non vincolante del parere che sarà reso).  
Non giova certo al decoro del nostro ordinamento, già ferito da una vicenda, quella della Tun, che si pone da oltre vent’anni ben oltre i confini del ridicolo, entrando a pieno titolo nel territorio dell’inciviltà giuridica.  
Ma il diritto, talvolta, sa essere storto. Purtroppo. 

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