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La componente umana nel risarcimento

Una recente decisione della Cassazione riporta la discussione sulla questione del danno non patrimoniale e sofferenze morali rispetto alle tabelle di liquidazione

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Una sentenza della suprema Corte di Cassazione depositata qualche giorno fa (Sez. 3 n.24075 del 13 ottobre 2017, pres. Chiarini; rel. Olivieri), ci riporta al ragionamento, da tanto tempo praticato a vari livelli di giurisdizione e dottrinali, del materiale utilizzo nello strumento liquidativo del danno alla salute oggi più diffuso nel nostro ordinamento: le tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale elaborate nel tempo dai tribunali dello Stato (e oggi confluite pressoché unitariamente nelle tabelle milanesi) e quelle di legge (art. 139 Codice delle Assicurazioni di recente modificato dalla Legge n. 124 del 4 agosto 2017).
La vicenda riguardava la difficile tematica della liquidazione così detta quodam tempore, vale a dire del danno alla persona subito materialmente dall’infortunato in un lasso di tempo specifico, cioè determinato, e non presunto nel futuro, per l’intervenuto decesso, per causa diversa dal sinistro. In questo caso, sono gli eredi ad agire per la quota di credito risarcitorio maturato nella sfera della vittima e passato in asse ereditario.

Il procedimento in questione
Nel caso specifico ricorrevano avanti all’alta corte i congiunti di una vittima deceduta appunto nelle more, cioè prima della liquidazione del danno, lamentando il fatto che la corte territoriale avesse semplicemente adottato un criterio matematico proporzionale partendo dal dato economico della tabella del tribunale di Roma, senza considerare l’effettiva sofferenza patita dalla vittima nel lasso di tempo di permanenza in vita e, quindi, omettendo una giusta personalizzazione della vicenda reale dell’infortunato, caratterizzata, oltre che dalla percezione della menomazione (danno biologico), anche dalla sofferenza soggettiva indotta dalle lesioni subite (narrate dagli interventi chirurgici che la parte aveva subito a causa delle stesse quando ancora era in vita).
La Corte accoglie la censura articolata in tali termini rammentando (in un breve excursus storico dei suoi essenziali precedenti) che secondo i dettami delle assai note sentenze “di San Martino” (SS.UU. nn. 26972-5 dell’11/11/2008 seguite da altre di segno conforme, come la  Corte Cass. Sez. 3, sentenza n. 24864 del 09/12/2010), “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.”

Il risarcimento non è puro calcolo matematico

Rammenta dunque la Corte che deve essere assolutamente evitata, anche in sede di utilizzo delle tabelle, la mera applicazione di automatismi liquidatori, privi di qualsiasi attinenza alla situazione concreta in cui versa la persona, tanto più resa peculiare dalle molteplici espressioni che la sofferenza assume in ciascun individuo in relazione alle specifiche contingenze della vita.
La liquidazione unitaria del danno non patrimoniale non significa, invece, l’esclusione tout court della valutazione – che rimane quindi dovuta, e risponde all’esigenza di adeguare il ristoro alle peculiari caratteristiche della situazione e della persona del danneggiato – di quella componente del pregiudizio non patrimoniale consistente nel “turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti” (cfr., in tal senso, Corte cass. Sez. L, sentenza n. 687 del 15/01/2014).
Fatta tale premessa, la Corte censura dunque la decisione di merito che si era limitata, nel caso specifico, a operare una mera proporzione matematica rispetto al periodo di effettiva permanenza in vita della vittima, e quindi senza alcuna attinenza specifica descrittiva e analitica del singolo caso di specie.

Resta di base la soggettività del caso

Nel condividere questo principio, che richiama sempre a una funzione per così dire umanistica e ego-centrista dell’esistenza dell’uomo rispetto alla mera valutazione oggettiva e svincolata dalla realtà, ci pare adeguato all’attuale realtà giurisprudenziale il principio (riportato in massima nella decisione segnalata) per il quale “nell’adeguamento personalizzato del risarcimento per il danno non patrimoniale, il Giudice di merito non potrà limitarsi a liquidare la componente sofferenza soggettiva, cumulativamente al danno cd. biologico, mediante applicazione automatica di una quota proporzionale (di regola pari ad 1/3) del valore del danno biologico; né tanto meno risulta congrua la applicazione, anche questa automatica, di una riduzione dell’importo, come sopra calcolato, corrispondente a quella del danno biologico commisurato alla durata della vita effettiva del danneggiato (anziché all’aspettativa di vita rilevata in base agli indicatori demografici elaborati dall’Istat ed assunti nel calcolo tabellare del danno biologico)”.
Invero, si legge ancora in modo chiaro, il giudice dovrà “preliminarmente verificare se e come tale specifica componente del danno non patrimoniale sia stata allegata e provata dal soggetto che ha azionato la pretesa risarcitoria, provvedendo successivamente – in caso di esito positivo della verifica – ad adeguare la misura della reintegrazione del danno non patrimoniale, indicando il criterio di personalizzazione nella specie adottato, che dovrà risultare coerente logicamente con gli elementi circostanziali ritenuti rilevanti ad esprimere la intensità e la durata della sofferenza psichica”.
Ancora una volta, dunque, la regola deve essere quella per la quale la tabella (di legge o convenzionale che sia) può solo costituire la base di partenza del ragionamento risarcitorio che deve sempre, nell’esercizio di indagine e descrittivo del giudizio del magistrato, esordire dal profilo obbiettivo per approdare a quello soggettivo, all’uomo insomma nella sua articolata identità esistenziale.

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