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(S)perequazione all’italiana 2.0: la Consulta giudica le leggi…

Vien da chiedersi se l’art. 1 del decreto legge 65/2015 (con cui il governo ha rimodulato il meccanismo della perequazione per il biennio 2012/2013) non sia esso stesso suscettibile di censura per le medesime ragioni poste alla base della pronuncia della Corte Costituzionale n. 70/2015.

È quanto meno dubbio, infatti, che una diversa modulazione – peraltro in via postuma – del meccanismo della perequazione per il biennio 2012/2013 sia sufficiente a superare l’impasse determinata da quella pronuncia: in primo luogo perché il coefficiente di rivalutazione risulterebbe sensibilmente ridotto anche per fasce di reddito non particolarmente elevate; in secondo luogo perché, anche ove la norma si limitasse a bloccare (o rimodulare) la perequazione dei redditi più alti (come accadde nel 2007), si tratterebbe pur sempre di una misura eccezionale e, dunque, non replicabile dall’esecutivo a distanza di pochi anni.

Certo, potrebbe obiettarsi che, ad oggi, i vincoli bilancistici di fonte comunitaria impediscono materialmente all’attuale esecutivo di emendare l’errore dell’allora governo Monti e, dunque, di reintegrare – per quanto dovuto – i trattamenti pensionistici colpiti dalla riforma Fornero. Pare tuttavia inaccettabile l’alzata di scudi contro il modus operandi della Consulta che, a dire di molti, avrebbe potuto e dovuto tener conto, nelle proprie determinazioni, dei deflagranti effetti della sentenza n. 70 sui bilanci previdenziali.

In un’intervista al Corriere (La difesa dei giudici della Corte:
«Nessuna valutazione economica», 21 maggio 2015) il presidente della Consulta ha ricordato che la Corte giudica le leggi e non i governi, rivendicando in tal modo la funzione di garanzia svolta dal Collegio il cui parametro di valutazione, unico ed esclusivo, è e resta il dettato costituzionale. E non potrebbe essere altrimenti: ogni potere costituzionale esercita appieno le proprie competenze istituzionali e se le casse previdenziali non dovessero essere effettivamente in grado di sostenere l’impatto della pronuncia della Corte, la responsabilità non potrebbe certo essere addebitata a quest’ultima ma piuttosto all’Esecutivo, o meglio al Parlamento, che ha ratificato quella scelta poi rivelatasi illegittima.

Ora, il governo in carica potrà pure limitarsi ad “eseguire” parzialmente la pronuncia della Corte e, dunque, incorrere nel medesimo errore già stigmatizzato dalla Consulta. Ma a quel punto nulla potrebbe vietare al cittadino interessato di tutelare i propri diritti in sede conteziosa per vedersi riconoscere quanto dovuto, sollecitando una pronuncia d’incostituzionalità anche della nuova norma. A condizione, ovviamente, che il decreto venga effettivamente convertito. E salvo che, per ragioni di bilancio, non si abbia l’ardire di voler negare al cittadino il diritto di difesa…


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