La previdenza complementare al tempo della RITA
Il 6 settembre ho assistito alla presentazione del terzo Report annuale
“Investitori istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori dei
patrimoni previdenziali per l’anno 2015” di Itinerari previdenziali.
La mattinata dei lavori è stata oggetto di ampio confronto tra operatori ed esperti della materia, oltre che un’occasione per alcune riflessioni circa l’avvio di un secondo tempo di questo blog.
L’analisi fornita dal Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali era volta a fornire un quadro sullo stato di salute dei Fondi Pensione Negoziali, dei Preesistenti, delle Casse dei liberi professionisti, delle Fondazioni bancarie e dei Fondi sanitari integrativi. Trattasi, a tutti gli effetti e senza tema di smentita, dei maggiori investitori istituzionali privati del nostro Paese (insieme alle assicurazioni, banche ed SGR), il cui patrimonio ammonta - unito a quello dei Fondi Pensione Aperti e dei PIP - a circa il 16 % del PIL.
Va da sé che il leit motiv dei lavori non poteva che essere quello relativo al come e al perché tali investitori “a finalità welfare” possano contribuire al rilancio dell’economia del Paese, senza per questo tradire le loro finalità istituzionali.
Da più parti è stato espresso l’intento di investire nella c.d. “economia reale”, senza rischiare danni e sconquassare i patrimoni di tali realtà e tradire le speranze di iscritti e assistiti.
A più voci, certi che lo Stato difficilmente spenderà di tasca propria per un rilancio del Paese, si è ipotizzato un intervento pubblico di garanzia (parziale) per il rimborso di tali investimenti o per l’agevolazione fiscale, ove le risorse siano dirette all’utile obiettivo di rilanciare il Paese.
Attenzione, non si tratta di generosità fine a sé stessa, sia perché di investimenti si tratta (e speriamo siano fruttuosi) sia perché il rilancio degli stessi nell’economia interna potrebbe significare (lo si spera) più lavoro e, così, maggiore PIL, più raccolta fiscale e più contributi per gli enti di previdenza e assistenza pubblici e complementari.
Stringendo poi la visuale alla sola previdenza complementare è emerso dal Report come il settore sia ancora in espansione, seppur in misura sensibilmente inferiore agli anni passati.
Interessante è stato lo spunto offerto dal Consigliere economico del Governo presente all’evento, il quale ha affermato che la leva fiscale – seppur importante – non può essere l’unica ricetta per l’incremento delle adesioni.
Perché non lavorare su un diverso modo di intendere l’utilità della previdenza complementare?
Una soluzione potrebbe derivare dalla maggiore diversificazione dei trattamenti dei Fondi pensione, rispetto a quelle del settore pubblico; non avere, quindi, una copia carbone in termini di prestazioni del primo pilastro, ma lavorare su un’offerta di servizi più utile e attrattiva.
La normativa già conosce prestazioni intermedie (es. le anticipazioni) a fianco di quelle squisitamente integrative pensionistiche del trattamento pubblico.
Ma le esigenze dei tempi cambiano e si diversificano e uno dei temi più attuali di questo tempo è il timore (più che fondato) dell’allungarsi della data di accesso alla pensione pubblica e il rischio di trovarsi senza lavoro in prospettiva di tale giorno.
Da qui l’idea della c.d. RITA - rendita integrativa temporanea anticipata (da affiancare e integrare con l’APE - anticipo pensionistico), ovvero un anticipo della prestazione pensionistica complementare in forma di rendita a favore di tutti quegli iscritti ai Fondi pensione che nei due/tre anni precedenti al pensionamento si ritrovino (anche involontariamente) fuori dal mercato del lavoro.
L’idea, seppur espressa solo a grandi linee, non sembra del tutto sbagliata e forse potrà essere utile a coprire quei vuoti tra una possibile prematura uscita dal lavoro e il tempo della pensione (in parte il D.lgs. 252/2005 prevedeva già qualcosa di simile, ma ogni miglioria è ben gradita).
Ma attenzione! Nuove misure di questo tipo dovrebbero essere ben calibrate, al fine di evitare che una rendita anticipata (seppur sottoposta a benefici fiscali) possa ridurre considerevolmente e bruciare il “tesoretto” pensionistico.
Buono quindi il progetto. Speriamo che tali misure (a cui sono seguiti annunci di integrazione della pensione minima) non rimangano soltanto fra i buoni propositi.
La mattinata dei lavori è stata oggetto di ampio confronto tra operatori ed esperti della materia, oltre che un’occasione per alcune riflessioni circa l’avvio di un secondo tempo di questo blog.
L’analisi fornita dal Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali era volta a fornire un quadro sullo stato di salute dei Fondi Pensione Negoziali, dei Preesistenti, delle Casse dei liberi professionisti, delle Fondazioni bancarie e dei Fondi sanitari integrativi. Trattasi, a tutti gli effetti e senza tema di smentita, dei maggiori investitori istituzionali privati del nostro Paese (insieme alle assicurazioni, banche ed SGR), il cui patrimonio ammonta - unito a quello dei Fondi Pensione Aperti e dei PIP - a circa il 16 % del PIL.
Va da sé che il leit motiv dei lavori non poteva che essere quello relativo al come e al perché tali investitori “a finalità welfare” possano contribuire al rilancio dell’economia del Paese, senza per questo tradire le loro finalità istituzionali.
Da più parti è stato espresso l’intento di investire nella c.d. “economia reale”, senza rischiare danni e sconquassare i patrimoni di tali realtà e tradire le speranze di iscritti e assistiti.
A più voci, certi che lo Stato difficilmente spenderà di tasca propria per un rilancio del Paese, si è ipotizzato un intervento pubblico di garanzia (parziale) per il rimborso di tali investimenti o per l’agevolazione fiscale, ove le risorse siano dirette all’utile obiettivo di rilanciare il Paese.
Attenzione, non si tratta di generosità fine a sé stessa, sia perché di investimenti si tratta (e speriamo siano fruttuosi) sia perché il rilancio degli stessi nell’economia interna potrebbe significare (lo si spera) più lavoro e, così, maggiore PIL, più raccolta fiscale e più contributi per gli enti di previdenza e assistenza pubblici e complementari.
Stringendo poi la visuale alla sola previdenza complementare è emerso dal Report come il settore sia ancora in espansione, seppur in misura sensibilmente inferiore agli anni passati.
Interessante è stato lo spunto offerto dal Consigliere economico del Governo presente all’evento, il quale ha affermato che la leva fiscale – seppur importante – non può essere l’unica ricetta per l’incremento delle adesioni.
Perché non lavorare su un diverso modo di intendere l’utilità della previdenza complementare?
Una soluzione potrebbe derivare dalla maggiore diversificazione dei trattamenti dei Fondi pensione, rispetto a quelle del settore pubblico; non avere, quindi, una copia carbone in termini di prestazioni del primo pilastro, ma lavorare su un’offerta di servizi più utile e attrattiva.
La normativa già conosce prestazioni intermedie (es. le anticipazioni) a fianco di quelle squisitamente integrative pensionistiche del trattamento pubblico.
Ma le esigenze dei tempi cambiano e si diversificano e uno dei temi più attuali di questo tempo è il timore (più che fondato) dell’allungarsi della data di accesso alla pensione pubblica e il rischio di trovarsi senza lavoro in prospettiva di tale giorno.
Da qui l’idea della c.d. RITA - rendita integrativa temporanea anticipata (da affiancare e integrare con l’APE - anticipo pensionistico), ovvero un anticipo della prestazione pensionistica complementare in forma di rendita a favore di tutti quegli iscritti ai Fondi pensione che nei due/tre anni precedenti al pensionamento si ritrovino (anche involontariamente) fuori dal mercato del lavoro.
L’idea, seppur espressa solo a grandi linee, non sembra del tutto sbagliata e forse potrà essere utile a coprire quei vuoti tra una possibile prematura uscita dal lavoro e il tempo della pensione (in parte il D.lgs. 252/2005 prevedeva già qualcosa di simile, ma ogni miglioria è ben gradita).
Ma attenzione! Nuove misure di questo tipo dovrebbero essere ben calibrate, al fine di evitare che una rendita anticipata (seppur sottoposta a benefici fiscali) possa ridurre considerevolmente e bruciare il “tesoretto” pensionistico.
Buono quindi il progetto. Speriamo che tali misure (a cui sono seguiti annunci di integrazione della pensione minima) non rimangano soltanto fra i buoni propositi.
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